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GUIDO SAVIO: I SETTE VIZI CAPITALI – INTRODUZIONE

INTRODUZIONE

Inizia con questa “Introduzione” un mio lavoro sui Sette Vizi Capitali.

 

Un tema che ho già affrontato tanti anni fa con amici provenienti da discipline diverse dalla Psicologia, e che, a quel tempo, ha avuto anche un discreto (se non buono) ascolto e seguito di pubblico.

 

Proporrò quindi, andando avanti nel tempo, uno scritto per ogni vizio (o peccato) capitale che comparirà prima nel mio sito www.psicoanalisi-pratica.com e poi sui social network.

 

Questa è la introduzione generale. Primo scritto.

 

 

I vizi: un sistema ordinato

 

Ormai la parola virtù non si incontra quasi “più se non al catechismo, nelle barzellette, all’Accademia e nelle operette”.

L’affermazione è di Paul Valéry. Probabilmente dobbiamo ammetterlo anche noi, a quasi cent’anni di distanza dal poeta francese: oggi il concetto di “virtù” non gode di grande fortuna e non riscuote molte simpatie.

Sembra ostinatamente richiamare in vita un quadro concettuale e un lessico ormai inutilizzabili, irrimediabilmente invecchiati e incapaci di leggere, interpretare e modificare l’orizzonte etico e psicologico del nostro tempo, dell’uomo contemporaneo.

Per usare un lessico hegeliano, e non solo, mi parrebbe di poter dire che la virtù pare essere stata sconfitta dal “corso del mondo”.

Troppa ipocrisia (pensa il nostro mondo) nella virtù: non è facile dimenticare le parole del moralista francese La Rochefoucauld, secondo cui “spesso le nostre virtù non sono altro che vizi mascherati”.

 

Troppa ingenuità, forse, nella pratica della virtù (che a volte è una astinenza se non addirittura una inibizione) Non abbiamo forse ancora compreso le parole dell’“uomo folle” nietzscheano e la sua sentenza: “Dio è morto!”, che condanna, con ogni divinità, la verità dell’Occidente e i suoi falsi valori.

Penso che la tanto proclamata “fine della virtù” –che ci impone di domandarci cosa possa rimanere dell’etica dopo la virtù non lasci tuttavia intatto nemmeno l’esercito di potenze che per secoli essa ha dovuto fronteggiare e combattere, la schiera delle temibili forze seduttrici animate dalla concupiscenza: i vizi.

Il nichilismo contemporaneo, si ripete spesso, non si cura dei vizi, perché non crede davvero nelle virtù; non può catalogare autentiche degenerazione distorsioni nell’agire umano, perché non sa individuare norme etiche inderogabili; non sente il bisogno di parlare di peccati, perché non vede nulla di sacro da oltraggiare (si ricordi che l’essenza del peccato, per S. Agostino, consisteva proprio nell’“offesa fatta a Dio”).

E, mi verrebbe da dire tuttavia che Agostino non riesce a vedere nel vizio un danno per sé e per l’altro.

 

È vero che la parola “vizio” è oggi spesso utilizzata, ma quali sono, nel linguaggio comune, i cosiddetti vizi? Si parla di “vizio del fumo”, di “vizio dell‟alcool”, di “vizio del gioco”.

 

Poi di vizi ce ne sono centomila altri e più sofisticati. La Rete, a strascico, ne pesca e ne crea sempre di nuovi. Ahimè.

 

Questi “nuovi vizi”, in realtà, non rimandano tanto all’idea di un modello etico trasgredito o svalutato, quanto ad una serie di complessi problemi personali non immediatamente riconducibili a questioni morali. Per questo, come dirò più avanti, vorrei “prendere” la questione dei vizi dal punto di vista psicologico-esistenziale, cioè strettamente personale.

 

Il termine “vizio”, a mio modo di vedere, designa oggi generalmente una debolezza relativa alla capacità di contenere e gestire le conseguenze che derivano da determinate scelte ed azioni individuali.

 

Il discorso sui vizi viene allora a collocarsi, paradossalmente, in uno spazio extra-morale, perché disancorato rispetto a ciò che dovrebbe valere come norma comune e condivisa dell’agire. Così concepito, il vizio non si definisce più in opposizione ad un solido modello etico, ma in relazione all’interesse individuale di un singolo, che può personalmente misurare –spesso a costi elevatissimi –il danno provocato da una determinata condotta autodistruttiva e anche eterodistruttiva.

 

I vizi di cui si parla oggi hanno (forse) inoltre reciso il loro legame costitutivo con la sfera del peccato.

 

Nella gestione degli affari quotidiani come nelle scelte personali (io lo vedo nella pratica clinica quotidiana), pare sempre meno incisivo e convincente qualsiasi paradigma (non solo religioso) che determini Bene e Male come opposti saldi e irriducibili.

 

Mi spiego meglio. I comportamenti considerati devianti o autolesivi sono, realmente, ricondotti a varie forme di malessere e di disagio psico-sociale, forme decodificabili caso per caso e, comunque, difficilmente sottoponibili ad un giudizio etico univoco e universalizzabile. A tutto ciò si potrebbe aggiungere che, nel vocabolario del conformismo –dove “pregio” è ciò che è apprezzato come con-forme ad uno standard di bellezza, intelligenza, efficienza socialmente richiesto, il vizio può essere considerato, al limite, un difetto: letteralmente, una “mancanza” che non soddisfa i requisiti sufficienti per essere o sentirsi adeguati al mondo in cui viviamo.

 

Ma, se così è, i vizi e le virtù in senso tradizionale qui c’entrano ben poco. Quando nacque l’idea di un “settenario” di vizi capitali (in questo senso il “sistema ordinato” da cui sono partito) lo scenario culturale era infatti molto diverso. C’era in gioco la salvezza dell’anima, non solo il benessere individuale o l’apprezzamento sociale. O il rispetto dell’etica comune e universale.

Entrando nella Storia, nella Teologia. Nella Filosofia e forse anche nella Antropologia, la contrapposizione frontale tra le virtù fondamentali (cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza e teologali: fede, speranza e carità) e i vizi capitali (superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria) fu per secoli un’occupazione intellettuale di straordinaria importanza.

 

Essa consentiva di sondare, disponendo di un nuovo vocabolario e di nuove categorie, quel “torbido mondo di passioni e pensieri” che è l’anima umana e di fornirle l‟armamentario e l‟attrezzatura necessari per contrastare il male.

 

E se il peccato è un “oltraggio a Dio e all’ordinamento morale da Lui stabilito”, il vizio è ancor più pericoloso per l’uomo, perché più difficile da combattere, essendo una disposizione radicata nell’anima, una “abitudine perversa che ottenebra la coscienza e inclina al male” (come recita ancora oggi il Catechismo della Chiesa Cattolica, par. 1866-1867).

 

Ecco allora. La prima sistematica opposizione di due eserciti nemici di vizi e virtù risale alla Psychomachia di Prudenzio (IV-V sec. d.C.); questa idea di scontro aperto e frontale tra due armate contrapposte passa, in seguito, attraverso le riflessioni di Evagrio Pontico e di Cassiano –che fissano un elenco di otto “pensieri malvagi”, contro i quali occorre trovare rimedi tratti dal Testo Sacro, e approda, nel VI secolo, al vero e proprio padre del settenario, Gregorio Magno.

 

È papa Gregorio a fissare con chiarezza l’elenco dei sette vizi capitali che ancora oggi ricordiamo.

Due esigenze stanno alla base di tale operazione culturale: da un lato, la necessità di individuare tra le inclinazioni al male quei vizi fondamentali che, come sette “teste” (capita), guidano le legioni di Satana e inducono l’uomo al peccato; dall’altra, quella di codificare e veicolare l’immagine di un universo ordinato e leggibile della colpa, strutturato come un grande albero o come una grande famiglia con filiazioni dirette.

 

Dice, infatti, Gregorio Magno: “I vizi sono legati da un vincolo di parentela strettissimo dal momento che derivano l’uno dall’altro”. E questo, a mio modo di vedere, è una scoperta importantissima. Non si parla di un vizio separato in toto dall’altro, ma vorrei parlare di un vizio che comprende o si avvicina molto (lo vedremo esaminando vizio per vizio) ad un suo simile e dunque vedremo che ci troveremo di fronte ad un soggetto vizioso un soggetto, dal punto di vista “peccaminoso”, se così si può dire, un soggetto “polivalente”. Portatore di più vizi. Esiste nei sette vizi capitali una loro intrinseca “trasversalità”. Semplificando…l’uno tira l’altro.

 

Ad esempio: la prima figlia della superbia[intesa qui come radice comune degli stessi sette vizi capitali], infatti, è la vanagloria[in seguito destinata a confluire nella superbia], che, una volta vinta e corrotta la mente, genera subito l’invidia; poiché chi aspira ad un potere vano si rode se qualcun altro riesce a raggiungerlo. L’invidia genera l’ira, perché, quanto più l’animo è esacerbato dal livore interiore, tanto più perde la mansuetudine della tranquillità e, simile ad una parte del corpo dolorante, avverte come insopportabile la pressione della mano che la tocca. Dall’ira nasce la tristezza, perché la mente turbata, quanto più è squassata da moti scomposti, tanto più si condanna alla confusione, e una volta persa la dolcezza della tranquillità si pasce esclusivamente della tristezza che segue tale turbamento.

Tristezza che penso, per noi moderni, più che un vizio sia uno stato, un “mood”.

 

Dalla tristezza si arriva all’avarizia, poiché quando il cuore, confuso, ha perso il bene della letizia interiore, cerca all’esterno motivi di consolazione e, non potendo ricorrere alla gioia interiore, desidera tanto più ardentemente di possedere i beni esteriori.

 

A questo punto sopravanzano i due vizi carnali, gola e lussuria. Ma è noto a tutti che la lussuria nasce dalla gola, dal momento che nella stessa disposizione delle membra gli organi genitali sono collocati al di sotto del ventre. Perciò, mentre quest’ultimo si riempie in maniera sregolata, quelli si eccitano alla libidine. Non certo quella freudiana.

 

Allora l’immagine del settenario di Gregorio Magno si rivela presto particolarmente fortunata: trova spazio nelle riflessioni di filosofi, teologi, moralisti per tutto il Medioevo. S. Tommaso dedica ampio spazio alla trattazione dei vizi in diversi scritti, consacrando definitivamente il loro elenco e la loro sequenza; le arti figurative ne fanno esplodere il potenziale immaginifico e stampano nella mente dei cristiani l’orrore dei supplizi infernali destinati ai reprobi dopo la morte.

Dante stesso suddivide il suo Purgatorio proprio in base alla sequenza gregoriana dei sette vizi capitali. Per tutto il Medioevo, la Cristianità occidentale si rispecchia e si riconosce nella metafora dell’anima umana come campo di battaglia in cui le virtù fronteggiano fino all’ultimo colpo le sette potenze del demonio e guadagnano, su questo terreno, la possibilità della salvezza.

 

Poi il lento tramonto del settenario, che inizia già in età rinascimentale, ha diverse e complesse ragioni, che si possono in parte individuare:

l’esaltazione delle virtù laiche e civili, alle quali, più che i vizi, si oppone ora la Fortuna (Machiavelli); la critica protestante alla “sacrilega tirannide” della Chiesa cattolica e alle sue “invenzioni” (tra cui proprio quella della dottrina dei sette vizi capitali) elaborate, secondo la visione di Lutero, per terrorizzare le coscienze dei fedeli e disciplinarne i comportamenti; le grandi trasformazioni economiche, sociali, culturali dell’Europa moderna, che avviano un processodi progressiva secolarizzazione (nascita della scienza moderna, Illuminismo, rivoluzioni politiche, rivoluzione industriale).

 

Allora, potrei dire (e torno all’inizio), che la critica e la decostruzione delle idee di virtù e vizio, condotte dalla letteratura e dal pensiero filosofico moderno e contemporaneo (Mandeville, De Sade, Hegel, Nietzsche, Freud, solo per fare qualche nome) è frutto del tempo. Forse del capitale.

Infine, più vicino a noi, lo smarrimento etico dell’uomo contemporaneo di fronte alle infinite possibilità della tecnica e la difficoltà di trovare un senso e un limite al suo “fare strumentale”. Dove fissare un confine se tutto sembra essere possibile? Cosa può l ‟etica (e, con l’etica, la natura) se essa è ormai infinitamente più debole della tecnica? Qualcuno sostituisce la parola tecnica con la parola “mondo”.

 

Per concludere questa Introduzione vorrei dire qualche cosa sulla onnipotenza.

 

Una delle esperienze fondamentali che si fanno in analisi è la scoperta della dimensione inconscia che sottostà a molte scelte e che soprattutto struttura alcune modalità esistenziali e comunicative del soggetto.

E’ chiaro che dal punto di vista analitico il peccato non ha le connotazione teologiche che siamo abituati a sottolineare.

Soprattutto l’inconscio non dovrebbe essere coperto da questa nozione che per definizione esige la libertà’ e la volontà chiaramente in azione.

Eppure anche dal punto di vista di una riflessione teologica, o più largamente religiosa, esiste la nozione di peccato originale che tocca ciascun uomo senza entrare in rapporto con la dimensione  volontaria.

Nessuno infatti sostiene che il peccato originale sia da attribuirsi alla lucida volontà di ciascuno.

Eppure questa nozione ha permeato tutta una serie di riflessioni che non sono rimaste per nulla solo nel campo teorico, hanno strutturato una cultura nella sua accezione più’ ampia e più’ pregnante.

Se noi tuttavia consideriamo con un minimo d’attenzione antropologica, al di là delle connotazioni più’ schiettamente confessionali, noi possiamo notare come uno dei significati ricorrenti del peccato originale, osservato soprattutto in una attenzione biblica, è proprio quello legato alla ‘ubris’ (desiderio di onnipotenza?) umana, alla onnipotenza dell’uomo che vuole essere come Dio.

È questa una interpretazione costante data al peccato delle origini, riconosciuta dai padri della chiesa, dalle sottolineature catechistiche e dalla ricerca biblica più aggiornata.

Il passaggio dalla ‘hubris’ alla onnipotenza è molto facile ed è giustificato anche semanticamente. E’ vero che si passa in un altro universo in cui i giochi linguistici sono differenti, ma è pure vero che questo è consentito dalla riflessione di oggi che legittima l’uso di un termine estratto da un contesto per usarlo in un altro ai fini di rilevarne la somiglianza e le differenze. Si tratta di una operazione di  dialogo interculturale che porta a una prospettiva transculturale.

Nel nostro caso si tratta di vedere la superbia (e il pensiero di onnipotenza) dei progenitori, tipica del racconto biblico religioso, per paragonarla con la onnipotenza del discorso freudiano.

E’ vero che i contesti sono diversi, le finalità linguistiche differenti, gli emittenti, i riceventi sono diversi: ma esiste anche una linea di congiunzione: quella che ha permesso a chi scrive di fare le associazioni che ho precedentemente ricordato.

E’ chiaro che queste associazioni coprono un registro personale e si iscrivono nella biografia del soggetto, ma è anche vero che questa storia è anche la storia del mondo occidentale, è la stessa storia di Freud che non ha potuto non confrontarsi col mondo religioso, con il pastore e amico  Pfister, o con il mondo ebreo da cui proveniva e in cui era profondamente radicato.

Il voler essere come Dio del racconto delle prime pagine del Genesi diventa simile al desiderio dell’inconscio di sentirsi Dio.

Siamo così entrati nello spazio che più è caro allo psicoanalista, quello che riguarda questo mondo della onnipotenza che tanto occupa la dimensione inconscia e è alla base di molte personalità più o meno disturbate.

Dico, “più o meno disturbate”, perché questa dimensione onnipotente è presente in tutti gli uomini, in aliquote diverse, a seconda delle fasi in cui uno è riuscito a elaborare questa situazione.

Chiamarla superbia, secondo la terminologia dei sette vizi capitali, vuol dire non rendere giustizia al termine onnipotenza che è molto più ricco e va al di là di una accezione puramente moralistica.

Il desiderio di onnipotenza nella dimensione psicodinamica è infatti collegata alle prime fasi di sviluppo e ha anche una dimensione strutturante dwl bambino, unita come è alla dimensione narcisistica.

Sappiamo che, al di là di ogni disquisizione sul termine, rimarcando che si tratta di un semplice modello di analisi, il narcisismo rappresenta una prima fase di sviluppo in cui il bambino ha la possibilità’ di esperimentare questo mondo fantastico, molto divino e frammentato, in cui si trova a essere “intronizzato”, al centro del suo piccolo universo familiare, punto di riferimento di una madre attenta, reuccio in un mondo ai suoi piedi.

 

Per questo mi sento di dire che l’onnipotenza è il punto di partenza, seppur sano nel bambino, ma non nella crescita dell’adulto, di tutti e sette i vizi capitali

Il superamento di questa fase, infatti, è un momento importante che, con la scelta di un oggetto di amore, fa si che il bambino impari a scoprire l’altro uscendo così dal suo guscio onnipotente.

Se questo momento è pure importante e foriero di molte soddisfazioni rappresenta anche una perdita, vissuta a volte come un grande e funesto ammanco: la perdita proprio della onnipotenza che coincide con il ridimensionamento delle proprie aspirazioni ma, d’altra parte, con una aderenza maggiore alla realtà. La scoperta del limite.

Questo passaggio non avviene quasi mai in maniera completa e in alcuni soggetti rimane un punto controverso nel proprio sviluppo psichico.

Questi non tanto ipotetici soggetti, (ciascuno do noi è un po’ così),si trovano a veder emergere la propria onnipotenza quando meno se lo aspettano.

Lo vedremo più dettagliatamente collegata all’ira.

L’onnipotenza diventa così la possibile laicizzazione del vizio capitale per eccellenza: la superbia.

A chi scrive sembra di poter vedere in questo nuovo contesto una risposta agli interrogativi antropologici a cui la nozione di vizio cercava di riferirsi.

Nel contesto analitico, la voglia di essere Dio e di trasgredire diventa, al di là dei connotati morali comunemente intesi, una delle costanti dell’inconscio di ogni uomo che deve fare i conti con queste istanze profondamente radicate in lui.

Vorrei toccare allora la questione dei Sette Vizi Capitali da un punto di vistapsicologico-psicoanalitico.

Cioè cercando di calare questi comportamenti umani (humanitas) all’interno di una visione per quanto possibile scientifica, quella della psicologia e della psicopatologia.

Cercherò dunque, per la pertinenza di ciascun vizio, di applicare lo schema visivo che qui sotto elenco.

 

– PSICOPATOLOGIA-SINTOMI NEI VIZI

– ISTERIA / NEVROSI OSSESSIVA / PERVERSIONE-PARANOIA / PSICOSI (NEL SETTENARIO)

– “OGGETTO” CHE VIENE ATTACCATO DA CIASCUN VIZIO

TORNACONTO DELLA MALATTIA PER CIASCUN VIZIO

– CONSEGUENZE RELAZIONALI

HUMANITAS E COMPRENSIONE DEL “PECCATO”

– SOGNO

 

Ovvero molto più semplicemente: vorrei vedere la psicopatologia interna a superbia, avarizia, lussuria, ira…etc.

Vorrei tentare di inserire i Sette vizi capitali all’interno di quelle che sono la quattro categorie diagnostiche (almeno quelle individuate dalla psicologia psicodinamica), cioè Isteria, Nevrosi Ossessiva, Perversione-paranoia e infine Psicosi.

Cercherò di rispondere alla domanda su quale possa essere per ciascun vizio un “oggetto” attaccato, un nemico da sconfiggere, una battaglia interna, etc.

Se, come giustamente affermava Freud, ogni patologia ha il proprio tornaconto, vorrei cercare di capire quale possa essere in tornaconto (vantaggio) nel vivere il proprio vizio.

Ogni persona che è “portatrice” di un vizio determina una ricaduta nelle relazioni in atto che egli vive nella sua vita.

Riporterò, per quanto possibile sogni e sintomi di pazienti che seguo nel corso della mia ahimè lunga esperienza professionale, che lascino intendere, o rimandino ad un particolare vizio.

Infine vorrei trattare questa questione che migliaia di altri scrittori, filosofi, filosofi, teologi, etc. hanno trattato nel corso dei secoli, all’insegna di una humanitas che tutti ci accomuna. Proprio nel senso che “siamo tutti peccatori” e “chi non ha mai peccato scagli la prima pietra”.

 

GUIDO SAVIO

(CONTINUA)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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