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GUIDO SAVIO: FIGLIO E PADRE – IL SANGUE- (QUINTA PARTE)

 

GUIDO SAVIO: FIGLIO E PADRE – IL SANGUE- (QUINTA PARTE)

 

SOVRANITA’: PENSARE CON LA PROPRIA TESTA

 

 

“Certo il padre d’oggi, nel suo inconscio, non coltiva il mito del Padre primordiale di freudiana memoria o del vecchio Crono, che i figli li sottomettevano o li divoravano – scrive Francesco Stoppa in La restituzione – Li custodisce invece con somma cura, come preziosi, inestimabili gioielli; salvo sminuirli quando li rimprovera di non saper ragionare con la propria testa, di non essere in grado di reggere le frustrazioni, di disinteressarsi di politica, di non competere con la sua generazione quanto a coraggio delle idee”.

La sovranità dei nostri figli sta proprio nella appropriazione di un diritto, quello di ragionare con la propria testa e di saper reggere le conseguenze del proprio agire (frustrazione compresa).

Il figlio acquisisce effettivamente una propria sovranità nel rapporto con il proprio padre nel momento in cui inizia ad usare la propria testa per giudizi, strutturazione di pensieri, risoluzione di problemi, effettuazione di scelte. Il figlio legge se stesso e il mondo con occhiali diversi da quelli paterni.

Quella fase di autonomia dunque che potrebbe passare sotto la condizione (che dice tutto e che non dice niente) dell’ “essere se stessi”.

Credo sia inutile qui addentrarci nella disanima della questione della autenticità, dell’essere se stessi, del comportarsi in modo naturale, etc, in quanto ognuno di noi ha una propria e originale modalità di esserlo (filosofi stoici, epicurei, ellenisti compresi).

Spesso tuttavia i genitori compiono una vera e propria operazione di “forzatura” nei confronti del figlio affinché appunto sia se stesso. Come giustamente annota Francesco Stoppa nel già citato La restituzione – perché si è rotto il patto tra le generazioni : “In sostanza, più che a ereditare valori comuni o modelli etici di comportamento, e a riconoscersi come il derivato di ciò che c’era prima di lui, il giovane è spesso istigato dai suoi genitori a essere veramente se stesso, e questa sollecitazione non ha nemmeno bisogno di concretizzarsi in seguito a una serie di confronti con l’autorità genitoriale o scolastica, con il partner dell’amicizia, e dell’amore o con la comunità”.

Vale a dire che questa forzatura ad “essere se stesso” può portare a un misconoscere il luogo da cui si proviene, a inseguire una astrazione. Invece il “pensare con la propria testa è il marchio della concretezza, è il dirigersi verso un obiettivo reale. E’ sperimentare la soddisfazione offerta dalla relazione con l’altro e dal superamento dei problemi che eventualmente si fossero interposti.

Un giovane uomo mi racconta questo spezzone di sogno (anche se il sogno è legato ad un ricordo d’infanzia, e a una immagine che certamente molti di noi ricorderanno): lui è Gatto Silvestro ed è rincorso dal cane con il collare con le borchie. La sua fuga si protrae per strade, orti, viottoli, finche lui-Gatto Silvestro, riesce ad arrampicarsi su di un grattacielo e raggiungere la terrazza. Sperando di essere finalmente al sicuro, tira un sospiro di sollievo, ma in quel preciso istante riappare dalla porta che dà sul terrazzo il cane con il collare pieno di borchie. Silvestro riprende la sua corsa disperata fino a passare, senza accorgersi, la balaustra e in questo modo corre nel vuoto. Continua, proprio come nei fumetti, a correre nel vuoto, con la testa rivolta all’indietro in cerca dell’inseguitore. Ma è proprio nel momento in cui lui “si accorge” che sta correndo nel vuoto che si ferma, “guarda in macchina”, come faceva Silvestro in quelle occasioni, e precipita giù. Ovviamente prima di toccare terra si sveglia sudato e in preda all’angoscia.

Perché metto questo sogno a questo punto del mio discorso? Perché a molti giovani accade di correre letteralmente nel vuoto, e nel momento in cui se ne accorgono, cadono, non prima. Camminano o corrono nel vuoto perché sono portati alla astrazione, al pensare ai pensieri, all’avvitarsi su progetti irrealizzabili pensati da altri, al perdere tempo in forzature del proprio essere per un miglioramento tanto impellente quanto impossibile. Giovani che si sentono richiamati da mille sirene…

 

“Ma torniamo – scrive ancora Francesco Stoppa – all’invito a essere se stessi. Forse chiunque si sentirebbe attratto dalla possibilità di fondarsi in se stesso, e di risparmiarsi la fatica di sottostare alle regole e alla esigenze provenienti dall’esterno. Ma se crescere significa, entro certi limiti, riuscire a fare senza l’altro, è pur vero che si tratta dell’esito di un percorso, complesso e non indolore, che passa per l’elaborazione della eredità che ognuno si è trovato sulla spalle”.

Nel corso della mia esperienza ho avuto modo di verificare poi come questo “essere se stessi”, da parte del padre che da parte del figlio, altro non sia che la capacità di governare un reciproco aiuto e di accettare un normale conflitto.

Proprio così stanno le cose: la sovranità del figlio, il suo pensare con la propria testa, poggia sulla sua capacità di essere solo, si stare da solo, di vivere senza l’altro (pur capendo che tout court, senza l’altro non si può vivere).

Talis pater, talis filius: se le cose stessero per davvero così saremmo costretti in un mondo invivibile, dove la legge del determinismo castrerebbe soddisfazione e piacere della differenza, dell’imprevisto, della irrazionalità e del frutto incerto che alla fine di tutti i giorni ci aspetta.

Un giudizio di causa-effetto è una verità, una verità liberante. Oppure una verità costringente fino alla morte. A seconda di come noi prendiamo la legge della causa-effetto, talis pater, talis filius . Non si tratta qui di scomodare Kelsen nella sua distinzione tra principio di causalità e principio di imputazione, che vedremo in seguito, ( H. Kelsen, La Dottrina Pura del Diritto) ma solo di porre la questione che l’eventuale fallimento della relazione figlio/padre è il non vedere dentro a questa questione.

Il padre porta sempre con sé un dono: a tutti e per tutti i figli di questo mondo. Questo dono è il proprio peccato. Che noi possiamo benissimo “laicizzare” nel termine di errore. L’ ammissione di errore del padre per il figlio è un viatico all’essere davvero se stesso, appunto senza timore dell’errore (ritorniamo a Kafka).

Se il padre non sbaglia nascondendo la propria mancanza diventa come Crono, Zeus, il Padre antropofago di Freud, etc., ovvero uno che pensa a se stesso e si fa cibo degli altri, a partire dai suoi stessi figli. E’ il padre pieno di se stesso. Non è questo un particolare da poco: che il comportamento delittuoso del padre principia dai figli e si estende negli atti che egli compirà nella società. Il padre cattivo comincia a fare ricadere la propria cattiveria sui figli, poi sul resto del mondo che lo circonda.

Con la propria testa e con la propria esperienza il figlio invece è chiamato a riconoscere ed accettare la mancanza da parte del padre, se vorrà poi accettare la propria.

Ma torniamo alla clinica. E’ sotto gli occhi di tutti, è nelle parole di molti padri in analisi che (mi) si chiedono: “Ho due figli (o tre, o quattro). Perché uno è diverso dall’altro? Perché uno è il giusto contrario dall’altro?

Io mi sono fatto una idea: bene o male tutti i figli, tutti noi figli, prima o poi, ci ammaliamo, ovvero abbiamo la nostra crisi, i nostri problemi, le nostre angosce.

Se mai dovesse esserci una differenza tra i figli di una stessa coppia, questa è data dalla capacità individuale di affrontare e risolvere i propri problemi. E sappiamo che i problemi si risolvono avendo un buon pensiero di se stessi, un pensiero di fede nelle proprie capacità e nei propri talenti, sapendo stare da soli.

Il figlio “in regola” è quello che si assume le proprie responsabilità : dico “in regola” perché ha capito la regola paterna che lo invita (non lo costringe) a usare il proprio giudizio, più presto che può, per dirimere le proprie questioni. Poi è ovvio che il buon padre c’è, è presente, anche con indicazioni e aiuti. Ma importante è che la regola sia il figlio a vederla in se stesso, nel padre e nel mondo: un lavoro di giudizio.

Il figlio impara più dagli errori del padre reale che dalle soluzioni azzeccate. Il padre non è l’autorità e il figlio che si scaglia contro l’autorità paterna (vedi la Lettera al padre di Kafka) prende un abbaglio. Semmai il padre è l’errore nella sua accettazione di accettarlo, il padre è il mancante senza vergogna, l’esente senza rossore che dal suo stato di non assolutezza prende la propria forza. La forza del padre è spesso quella che dal figlio viene letta come debolezza. Aveva in parte ragione Ferrarotti quando affermava che “il ’68 si è scagliato contro le figure esplicite e formali dei padri, ossia dei detentori della autorità…, senza rendersi conto che si trattava spesso di ruoli ormai svuotati e privi di forza reattiva”.

Il sociologo vede della negatività nella perdita di autorità (ma forse qui sarebbe meglio parlare di autoritarismo) dei padri reali, noi prenderemmo per positivi quei padri che dallo svuotamento del loro potere autoritario hanno saputo trarre motivo di relazione con i propri figli, nonchè ruolo nella società in cui sono chiamati a essere se stessi.

 

 

 

LA QUESTIONE DEL SANGUE E DELLA RESPONSABILITA’

 

Un uomo sogna il proprio padre disteso in un triclino romano che gli dice, con espressione impositiva: “Sono tuo padre, proprio per questo…” e sciorina uno dopo l’altro una serie di nomi latini di piatti che il figlio dovrebbe servire al padre, ma di cui il figlio non conosce né la fattura né la consistenza. Il figlio fa presente al padre questa sua difficoltà e il padre risponde che lo “deve fare” per una questione di sangue, ovvero perchè “il padre è sempre il padre e il figlio resta sempre il figlio”.

Qui siamo all’opposto del padre umano dell’errore di cui andiamo parlando, qui siamo agli antipodi del buon padre di Pirandello. Il padre non può rendere se stesso autoritativo usando la questione del sangue. Il padre è un soggetto scisso dalla propria funzione precostituita e sancita da legami generativi o “autoritativi”. Anche lui è uno tra i tanti. Il padre non è un universale per natura ma se mai volesse diventare agli occhi del figlio una fonte di autorità e di valore, se lo deve meritare, non basta il diritto del sangue, che è un diritto non pattuito ma imposto.

Il padre del sogno, nella sua storicizzazione, è ben lungi dall’avere di sè un pensiero di finitezza e di errore, ma è sempre stato arroccato su posizioni superegoiche di comando e di infallibilità, di imposizione e di ordine, da cui la sua crisi stessa (almeno così è sognato dal figlio).

Ho sentito una volta in seduta una persona che mi ha detto più o meno così: “Padre che comanda, miseria della famiglia”, intendendo in questo senso tutta la negatività della azione di comando e di imposizione.

E come si può dargli torto? Come può fare il figlio a “levarsi” dalla logica del sangue che il padre vorrebbe imporgli? Semplicemente usando il più possibile la propria responsabilità, ed è proprio la responsabilità l’opposto della perversa legge del sangue. Il figlio responsabile è un figlio che obbedisce all’autorità paterna, ma quella del merito, quella dell’educazione, quella del lavoro reale che il padre ha fatto nella propria esistenza. Insomma quella della civiltà e della cultura che è il superamento del diritto del sangue.

Infatti questa legge del sangue si rivela perversa proprio nel senso di “preservare” il figlio dalle proprie responsabilità. E’ il caso dei cosiddetti “figli di papà”, della famiglia mafiosa, del baronato e del nepotismo, etc. tutte quelle odiose forme che bene conosciamo dove non si applica il merito ma per l’appunto il “sangue”, l’odioso privilegio.

Abbiamo visto da Francesco Stoppa come il buon figlio sia chiamato ad una giusta “restituzione”, restituire cioè quelle opportunità che gli sono state date e fare delle occasioni offerte il proprio valore, fruttare i propri talenti assumendosi anche la responsabilità di poterli perdere. Potremmo qui lapidariamente dire che un buon padre è colui che “offre sempre occasioni” al proprio figlio, non oggetti o soluzioni.

Restituire dunque è la forma del merito che il figlio ha saputo ritagliarsi da sé senza “sfruttare” una regola perversa quale quella del sangue e del privilegio dunque. Sappiamo che il lavoro è, assieme all’amore, una delle colonne della salute mentale e non solo. Il padre che “regala” proprie prerogative al figlio, che gli fa le “regalie” senza che questo se le sia guadagnate, gli fa il peggiore dei mali, perché gli evita di lavorare, di mettere in pratica la propria inventiva e la propria creatività. Gli impedisce di arrangiarsi da solo e di pensare con la propria testa. Portare qui cattivi esempi presenti nella nostra società sarebbe un vuoto esercizio di elencazione.

Ma chi è il padre che veramente fa lavorare (bene) il proprio figlio?

E’ quel tale che ho incontrato in treno, ad esempio in un giorno in cui piove, e che ad un certo momento mi dice: “Non perchè piove oggi è una brutta giornata”. La frase mi è rimasta impressa. E’ la frase dell’invito a guardare dentro di sé per capire che tempo fa, ancora prima di guardare fuori dalla finestra: molti invece fanno il contrario. L’invito ad usare prima la propria testa e poi guardare fuori dalla finestra …che tempo fa.

Questa frase è la frase dell’intervento reale sul mondo che ci circonda e che ci contiene. Se uno trova che io non gli sono simpatico, ossia non sono un “bene” per lui, andrà a cercarsene uno da qualche altra parte. Il padre è colui che traduce, o meglio, tenta di tradurre la propria e altrui fenomenologia anche patologica in un processo di risanamento, in una bella giornata.

La responsabilità abbiamo visto è l’opposto del sangue. La responsabilità è il responsum ed ha sempre a che fare con gli atti. In quanto tale diventa una sanzione (“così è, e basta”). Nel momento in cui ha a che fare con la volontà la responsabilità diventa rinuncia a funzioni perverse (sarebbe proprio da irresponsabili pervertire nella ripetizione in quanto, si sa… perseverare diabolicum).

Responsabilità come re nel senso della reciprocità e della ripetizione, spondeo come funzione di legittimazione (domanda/risposta). Il responso è la consapevolezza del proprio desiderio, considerando che tutte le forme di rimozione (ovvero il non volerne sapere della propria storia e della propria memoria che solo dal desiderio sono mosse) vanno contro il responso. Le classiche fette di salame davanti agli occhi, ovvero la rimozione, oltre a non far vedere nulla, non fanno neppure desiderare nulla: accecamento completo. La nevrosi è la roccaforte di tale accecamento.

Il padre allora diventa la possibilità della soluzione (della conclusione) attraverso il concetto di finitezza opposto a quello di assoluto. Lo spondeo non è tanto un atto o una scelta, ma uno stato di legge, uno stato giuridico che garantisce la libertà di scelta in un verso o nell’altro. Bernanos annotava che “Lo scandalo dell’universo non è la sofferenza ma la libertà”.

A far pervenire a soluzione non è una “opportunità/occasione” di cui il soggetto può usufruire, ma uno stato giuridico garantito dal pensiero di padre come garante del nihil obstat della espressione della Volontà. Domanda/ Risposta è la prima forma del rapporto. E sappiamo che è la forma del rapporto che genera il soggetto, che lo genera in quanto responsabile, dunque amabile, dunque…. risolvibile. Finibile.

E’ impossibile una reductio ad unum del diritto soggettivo e di quello oggettivo.. Scrive Kelsen (e qui lo prendiamo in mano) in La Dottrina Pura del Diritto: “E’ possibile giustificare il diritto mediante la morale solamente nel caso che possa esistere contrasto tra le norme della morale e quelle del diritto, cioè solamente nel caso che possa esistere un diritto buono o cattivo dal punto di vista etico. Se un ordinamento morale, sul tipo di quello proclamato da San Paolo nella sua Epistola ai Romani, prescrive in ogni circostanza le norme poste dall’autorità giuridica, escludendo così in anticipo ogni contraddizione tra sè ed il diritto positivo, non può realizzare il proprio intento di giustificare il diritto positivo attribuendogli un valore morale.

Se infatti ogni diritto positivo è buono, cioè giusto, in quanto voluto da Dio, così come è buono tutto ciò che è voluto da Dio, nessun diritto positivo può essere ingiusto, così come nessuna cosa esistente può essere cattiva; e se il diritto viene giustificato con la giustizia e l’essere con il dover essere (Sollen), il concetto di giustizia e quello di bene hanno perduto il loro significato. Se non c’è nulla di nulla di male (di ingiusto), non può esserci nulla di bene (di giusto).”

Responsabilità prevede il suffisso “abilità”. L’abilità è la capacità di intendere la situazione e il trovare dentro di sé gli strumenti per risolvere il problema. Questo nella psicologia scolastica. Responsabilità, nella completezza del costrutto, è abilità (strumento, uso, etc,) del responsum, ovvero del giudizio, una risposta.

Ecco, io intendo che figlio sia quel soggetto che ha abilità nell’esprimere il proprio giudizio e di metterlo in pratica, cioè di farne seguire alcune conseguenze (ovviamente non preventivabili).

Potremmo anche dire che è la capacità di accettare le conseguenze della propria azione che fa di un uomo un uomo “maturo”, un soggetto che comunemente si potrebbe definire “affidabile”. Poi, sappiamo tutti, le conseguenze non sono completamente nella nostra mano destra e dunque possono anche sfuggire al nostro intento o progetto.

Affidabile, alla lettera, è quel tipo a cui io “affido” qualcosa di mio perché ne faccia buon uso. Non vorrei qui soffermarmi più di tanto sulla ormai inflazionata “parabola del figliol prodigo”, tuttavia alcuni passaggi mi sembrano rilevanti in riferimento al discorso del sangue e del merito che vado facendo.

Il cosiddetto “figliol prodigo” è chiaramente un figlio indotto in tentazione. E’ indotto in tentazione proprio da un suo “errore” di giudizio: la possibilità di raggiungere la soddisfazione senza passare per la gavetta, senza fare il passo lungo quanto la gamba. Non ha saputo ragionare con la propria testa non possedendo ancora la abilità per farlo. Non ha saputo “stimare” le conseguenze della propria scelta e le cose gli sono andate ben presto male.

Molto discorsivamente potremmo dire che il figlio minore, nella prima parte della parabola, si è comportato da pollo. E il peccato di ingenuità non è sempre facile da perdonare. Si è comportato pensando che il modello della relazione con il padre che aveva avuto fino ad allora (il padre pensava a lui) si sarebbe riprodotta anche nel “paese lontano”. Ma nel paese lontano non vigeva la regola del “garantito”, ma quella del merito, e lui di meriti ne aveva ben pochi. Un ingenuo insomma che non dimostra certo affidabilità, né abilità, lo dimostra il fatto che “sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto”.

Il padre, sempre nella prima parte della parabola, si comporta come il padre del “sì”, il padre del nihil obstat. Vuoi le tue cose? E’ nel tuo diritto averle. Io non sindaco: te le do. E’ abbastanza presumibile che il padre sapesse come sarebbero andate a finire le cose, per l’appunto conoscendo il suo pollo, tuttavia rinuncia alla metà dei suoi averi affinchè il figlio “faccia esperienza” (si direbbe adesso).

E’ questo il padre che ha piacere che il figlio abbia piacere, ma è anche il padre che capisce che il figlio ha bisogno di provare sulla sua pelle (al contrario del fratello) la strada della indipendenza. Sappiamo che si cresce sugli errori (ma anche sulle cose azzeccate) e il padre, nella prima parte della parabola, si comporta di conseguenza. Il padre pratica effettivamente la legge “Voglio il tuo bene”.

Il padre si era accorto che il proprio figlio se ne era andato dalla casa paterna portandosi appresso la legge dell’”amore garantito”, anziché quella dell’”amore meritato”.

Quale è la differenza tra le due leggi? Semplice: l’amore garantito è quello garantito dal privilegio del sangue e non comporta indicazione al lavoro. La regola dell’”amore meritato” è quella che indica la laicità del soggetto (risponde lui in prima persona) e l’indicazione al lavoro.

Se vogliamo ancora di più la differenza sta nel fatto che nella prima (falsa legge) non esiste libertà (ritornando a Bernanos) , mentre nella seconda sì.

Chi ama troppo se stesso non lavora e il figliol prodigo, lo abbiamo capito, aveva assai poca voglia di lavorare proprio perché amava troppo se stesso.

Seconda parte della parabola, dove per noi è doveroso chiederci: “Ma quale è in fin dei conti il ‘merito’ del figliol prodigo per meritarsi il perdono paterno e la parte migliore del vitello grasso?”.

Seguiamo Luca (Lc. 15,15): “Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni”.

Il pentimento del figlio non varrebbe nulla se non contenesse l’impegno al lavoro: “Fammi lavorare come uno dei tuoi garzoni”, ovvero inizio tutto daccapo, dalla gavetta, fuori dalla falsa legge del privilegio del sangue, perché ho capito che devo lavorare nel senso della “restituzione”, ho capito che devo fare i miei passi da solo.

In più nel figliol prodigo non c’è discrepanza tra pensare e fare: quello che pensa nel paese lontano, mentre accudisce ai maiali, poi lo ripete al padre ed è disposto a vivere le conseguenze del suo dire. Diviene, se vogliamo, in un baleno,”affidabile”. Diviene un convertito alla legge del pensare con la propria testa e del muoversi per primo per poter pervenire alla propria libertà.

Non so se questo pensiero rientrasse negli intenti degli evangelisti, ma io mi sentirei di dire che il figlio, tornando a casa, trasforma il rapporto con il padre da un rapporto impostato sul sangue a un rapporto tra persone, tra persone civili, tra laici, tra uomo e uomo.

Infatti il padre sembra non badare tanto alle parole del figlio, aveva capito tutto prima. Gli offre il suo abbraccio, ovvero il suo corpo, e ordina di fare festa, malgrado le lamentele dell’altro figlio che tutto questo percorso umano e psicologico, restandosene dipendente a casa, non aveva avuto modo di compiere. Un figlio era diventato abile mentre l’altro era rimasto inabile.

Responsabile diventerà secoli dopo l’ able post Riforma e post Illuminismo in quanto l’uomo diventa protagonista da comprimario o subalterno che era in precedenza, nel periodo medievale, quello della sudditanza. Responsabile diventa la sanzione, ovvero la messa in pratica, del principio di responsabilità che afferma che ogni soggetto guarisce nel momento in cui cessa di interessarsi dei peccati che gli altri hanno commesso su di lui e che ne avrebbero determinato la patologia, per interessarsi dei propri peccati come atti susseguenti un principio di libertà.

Il lume della ragione serve per attuare tale spostamento: dal peccato altrui al mio peccato, senza tuttavia considerare quest’ultimo il primo passo per la istruzione di un processo penale a mio carico, bensì il primo passo per la istruzione di un processo premiale, ovvero la mia guarigione. Il figlio deve fare questo passo. La prima virtù è il vivere all’insegna del sano principio di responsabilità. Un adagio tra addetti ai lavori recita che “Si va dal prete per confessare i propri peccati, si va dallo psicoanalista per confessare i peccati degli altri!” Infatti la guarigione in analisi comincia quando il paziente cessa di fare i conti in tasca agli altri (padre e madre in primis, vedi Kafka) e comincia a prendere in seria considerazione le proprie magagne. Per questo la virtù è il vedere se stessi dentro la propria storia (nel bene e nel male che ogni storia comporta). Una ulteriore differenza tra il figliol prodigo e il figlio dipendente.

 

 

LA VIRTU’

 

 

“Gli adolescenti – scrive Ilaria Castellucci nel volume di Pietropolli Charmet e Cirillo Adolescienza – desiderano essere delle ‘belle persone’. Anche coloro i quali manifestano comportamenti ostili o devianti, in realtà esprimono un forte desiderio di essere accettati, riconosciuti e stimati”.

Proprio così, il desiderio del figlio di essere visto come una bella persona, dove “bella persona” significa “moralmente apposto”, diventa poi una della principali accuse che il figlio rivolge al padre quando costui non segue una debita regola morale, quando il padre “bella persona” non è. Dell’accusa “morale” del figlio adolescente al padre immorale abbiamo avuto modo di dire in precedenza.

Il figlio chiede sempre che il padre sia un padre virtuoso, spesso lo pretende con forza e anche al di sopra di quelle che sono le reali possibilità del padre. Lo chiede per propria sicurezza, per propria garanzia, perché sa che da un padre “virtuoso” può aspettarsi comprensione, affetto, amore, collaborazione, stima.

Afferma A. MacIntyre in Dopo la Virtù. Saggio di Teoria Morale: “Si dà il caso che adesso siamo in grado di formulare una prima definizione di virtù, seppure parziale e provvisoria: ‘Una virtù è una qualità umana acquisita il cui possesso ed esercizio tende a consentirci di raggiungere quei valori che sono interni alle pratiche, e la cui mancanza ci impedisce effettivamente di raggiungere qualsiasi valore del genere'”.

Se il figlio chiede al padre sostanzialmente si essere un soggetto “moralmente apposto”, lo fa per i motivi di garanzia che abbiamo visto in precedenza. Tuttavia il figlio non chiede al padre la “visibilità” del proprio comportamento morale, non chiede al proprio padre che “gli faccia vedere” quale possa essere un comportamento morale. Chiede al padre che “lo sia” senza “farsi vedere”.

Un giovane uomo, insegnante di pianoforte, fa questo sogno. Si trova in montagna in una via ferrata. Ad un certo punto la parte attrezzata si interrompe e lui è preso da grande angoscia in quanto non ha le gambe né per proseguire né per tornare. Il tempo si rabbuia e i compagni di cordata che prima lo accompagnavano ora non li vede più. Si sente preso da un forte pensiero di morte e nota che i polpastrelli delle mani cominciano a diventare scuri. Concentra la propria attenzione sui polpastrelli e pensa che, se mai dovesse salvarsi da quella situazione, non potrebbe più suonare il pianoforte, cosa che farebbe molto dispiacere al padre che tanto aveva “insistito” nella sua vita perché scegliesse quella professione. Ad un tratto un fulmine colpisce la via ferrata e da questa scarica elettrica i suoi polpastrelli quasi in necrosi di rivitalizzano. Ricompaiono i suoi amici di cordata e lui riesce a passare il tratto pericoloso e portarsi in salvo.

Interpreta il proprio sogno in questo modo: mi sono trovato in quella situazione disperata perché in montagna non ci dovevo andare, a scalare le mie mani si potevano rovinare e mio padre non mi avrebbe mai perdonato. Eppure la compagnia mi piaceva e mi stavo divertendo a “provare” il mio corpo nella difficoltà. Mio padre mi aveva indirizzato verso il pianoforte ma io ho sempre vissuto questo dato come un sopruso e una sua forzatura della mia vita (mentre in realtà la scelta era stata libera e soddisfacente). Mio padre si era comportato in maniera “immorale” nei miei confronti costringendomi. Il fulmine ha messo le cose apposto (come quello di Zeus?). Io, inizialmente, devo riconoscere, avevo poca voglia di studiare musica e ammetto ora che imputavo a mio padre la forzatura della mia scelta e dunque il motivo delle mie difficoltà.

Questa presa di coscienza nella lettura del sogno sembrava una conversione di pensiero di accusa verso il padre, sembrava un fulmine a ciel sereno che aveva ribaltato tutto il pensiero che il pianista aveva avuto in precedenza sulla “immoralità” del padre.

Allora, in sostanza, che parte fa il fulmine nel sogno? Quello di mettere apposto un pensiero di accusa che il figlio pianista aveva sempre avuto nei confronti della “moralità” del padre. Non si trattava in realtà di un padre immorale, ma di un figlio che aveva poca voglia di studiare e che il fulmine aveva finalmente svegliato.

Il pianista aveva confuso per tanto tempo la autorevolezza paterna con una autorità costrittiva e lesiva della propria libertà, dunque, secondo lui, immorale.

L’ autorità invece non comanda ma “autorizza”.

La mancanza del pensiero di autorità è causa della nevrosi (come nel sogno appena presentato) ma la nevrosi toglie l’autorità vera del padre e la confonde con autoritarismo e crea inconcludenza, in quanto il figlio attribuisce ad altri responsabilità che in realtà sono proprie.

L’autorità è un dato universale. Si è davvero indipendenti quando si ha imparato ad essere dipendenti all’interno di una regola universale che non costituisce principio di autoritarismo bensì forza accomunatrice tra gli uomini (siamo tutti uguali nell’universo). L’universo è il dato che mette tutti alla pari: scalzare questo dato come principio significa correre verso la perversione, giusto il contrario della virtù.

L’accettazione della autorità, da parte del figlio, è l’accettazione di “stare sotto” (il “chi” non conta molto) per poi, dal frutto di questa esperienza, saper essere autonomo. Molti figli diventano polemici, aggressivi, a volte anche distruttivi perché non riescono a mettere apposto questo pensiero.

Ritengono che l’”ubbidienza” al padre sia un atto lesivo della loro sovranità e dunque difficilmente accettano la parola, il consiglio, la dritta, pur magari conoscendone la giustezza. Molti figli accusano il loro padre di non essere virtuoso in quanto esercita eccessiva costrizione nei loro confronti.

Il mio percorso di analista mi ha visto spesso spettatore impotente di giovani ragazzi che, pur di “avere ragione” (la loro posizione narcisistica) rifiutavano la parola della autorità e facevano del male a se stessi.

Dico che il figlio che non accetta un soggetto a lui “superiore” (in intelligenza, in età, in forza, in ruolo, in valore, etc.) farà fatica nella vita a saper essere indipendente e a reggere le proprie cose e il proprio destino senza entrare continuamente in conflitto pernicioso con l’altro, ovvero con la donna, con il datore di lavoro, con il proprio figlio, con il mondo stesso.

Il “ribelle” all’autorità paterna troverà difficoltà a sottomettersi giustamente e normalmente a figure maggiori di lui sia nel lavoro che nelle relazioni sociali.

Il figlio che si pensa “vulnerabile” dalla autorità diventa “polemico”.

Più il figlio si sente vulnerabile dalla vita, dagli altri, dai compagni, dal mondo e più diventa “polemico”.

Ma la vulnerabilità del figlio spesso è solo un pensiero, non un trauma subito, come direbbero gli psicologi, un pensiero di autoriferimento, ovvero il figlio si ritiene vittima, o almeno “offendibile” da amici, madre, padre, allenatori, preti e dunque si difende con la migliore difesa, cioè l’attacco.

Spero non sia capitato molte volte a genitori e insegnanti di vedersi sbattere la porta in faccia dal figlio o dall’alunno ben prima che si iniziasse un discorso, un discorso qualsiasi, che i canali venissero chiusi ancora prima che il padre o maestro potesse aprire bocca.

Cosa fare? Non sempre c’è una risposta. A volte la risposta sta nella pazienza, anche nel pensiero che è possibile che certe questioni non si risolveranno. Il mondo sta in piedi anche sul fatto che molti problemi non si risolvono, che esistono questioni intoccabili, che la continuazione è vitale, nel bene e nel male.

Io ho visto molti genitori commettere grossi errori con figli polemici pretendendo che si “parlasse”, che si “discutesse”, che si “mettessero le carte sul tavolo”. Nulla di più errato, a mio modo di vedere. Certi conflitti, a volte, non si risolvono. Oppure si risolvono da soli, quando il tempo ha fatto il suo tempo.

E’ questo il segno inequivocabile che “parlare” non c’entra niente, c’entra invece che il padre capisca la relazione che il figlio non riesce a reggere finchè il pensiero di essere attaccato lo attanaglia. Questione questa completamente diversa da quella della “parola giusta”, del giusto dire tra figlio e padre come lo abbiamo visto in precedenza.

Sappiamo tutti quanto odiosa sia la posizione del polemico. Il polemico non vuole la sua vittoria ma la sconfitta dell’altro. Quindi il polemico non segue una sua causa autonoma da difendere e da rendere edotta agli altri. Il polemico ascolta la causa degli altri e la attacca. Costi quello che costi. Purtroppo molte relazioni tra padre e figlio si basano su questo. Sono relazioni difficili. E’ difficile avere a che fare con uno che non ha niente da perdere, uno che non gli interessa niente difendere la sua causa ma attaccare e distruggere la tua.

Ho sentito molti padri che per anni hanno vissuto questa realtà difficile. Le uniche parole che mi sentivo, e che mi sento tutt’ora di dire è di…lasciar stare, di allontanarsi, di astenersi. Ma non tanto dal rapporto con il figlio, o dallo spartire il “giusto parlare” con loro, quanto dalla priorità che il figlio aveva assunto nelle loro vite: quando il figlio diventa il centro della mia vita di padre.

“Per fare bambini felici, metti il matrimonio al primo posto”. Sacrosanta verità. In tanti anni non ho mai visto “bambini felici” che siano venuti fuori da una coppia di genitori che prima di tutto non fosse coppia. Cioè amore. Cioè sesso, nel senso che il bambino poteva vedere ogni santo giorno come è fatto un uomo (padre) e come è fatta una donna (madre).

E da lì partire con il suo pensiero di come sarebbe diventato lui un uomo o una donna.

Abissali buchi nell’acqua li ho visto fare a genitori che hanno messo i figli “al primo posto” e si sono dunque arrogati il “ruolo” di genitori come “compito” fondamentale della propria vita. Presto il ruolo è diventato dovere, fatica, impegno improrogabile, senso di colpa, aridità. E tutto questo il bambino lo vede, lo annusa nell’aria di casa ogni santo giorno e… ne trae le conseguenze: cioè si confonde perché non ha ancora la tempra per occupare un posto tanto “irrinunciabile”, il primo posto.

Ho visto poi bambini che sono diventati buoni uomini e buone donne sapendo stare al loro posto, cioè secondi. Dietro la regola d’amore che vedevano in un uomo e una donna che poi erano i loro genitori.

Il figlio non può essere il centro della vita dei genitori. I genitori hanno la loro vita, di amore, di lavoro, di soddisfazione reciproca.

In fondo il pensiero di padre è sempre un pensiero di “padre di…”.

Egli è rappresentante in questo modo dell’universo, dell’andare tutti verso una direzione, che è quella della guarigione, del cercare di stare bene. L’universo è l’“uni vertere” in cui tutto è rivolto in un’unica direzione. L’universo è legge in quanto è popolato dall’Altro, unico referente che può dare o negare credito alla mia verità. E’ l’altro che vede la mia realtà, basta saperlo ascoltare.

La questione dell’universale è la questione che il padre “fa vedere” oltre di sé un panorama, una realtà, un mondo, un valore che lo trascendono. Appunto che vanno oltre a lui.

Il figlio può e deve vedere nel proprio padre sì un soggetto in carne ed ossa, ma soprattutto un rappresentante della legge che è una legge di umanità, che siamo tutti uguali, che c’è bisogno del rispetto reciproco, che la società vive nel diritto, altrimenti muore.

Questa è la questione che il padre rappresenta per il figlio l’universale: lo rimanda a una realtà umana che ingloba tutti gli uomini, e tutti gli uomini regola. Oltre il padre, oltre il particolare rapporto, oltre le mura di casa. L’universale è la strada maestra.

Gli uomini si dividono in due categorie: quelli che sono centrati sull’appagamento, (e il padre è determinante in questo “insegnamento”) o soddisfazione; e quelli che non lo sono. Anzi, quelli che non sono centrati nell’appagamento sono polemici contro l’esserlo (é la perversione). Due categorie: quelli per i quali il motivo del padre è decisivo, e quelli che lo rifiutano.

Ma ricusare il padre è come affermare che non esiste alcun universo: perché padre vuol dire universo, ovvero “siamo tutti sulla stessa barca”. Il mondo si divide esattamente in due, proprio come le due Città distinte, come le due Città di Agostino: da una parte la città di quelli che vivono in rapporto all’universo, che sono centrati sull’appagamento e sul Padre; dall’altra, la città della tentazione permanente, popolata da soggetti che vanno verso un’altra strada, quella della noia e della malinconia.

Gli appagati stanno da una parte, i “tentati” stanno dall’altra. La tentazione è quella di fare passare la questione del proprio “riconoscimento” attraverso un pensiero di buco, una mancanza, un fallimento. Non si è riconosciuti o soddisfatti là dove la regola fallisce. E i luoghi di fallimento della regola nella nostra società sono infiniti, dalla televisione allo stadio, dalla setta alla discoteca, dall’integralismo alla febbre (adesso strage o rave) del sabato sera.

Il soggetto sovrano ha sovranità prima di tutto sul proprio “riconoscimento” nel senso che non ne ha di bisogno, non ne muore se è senza, ma ne ha desiderio, ovvero può vivere ugualmente. Il figlio che sta bene, ho visto nella clinica, è sempre quello che in qualche modo è stato riconosciuto dal padre. In questo piccolo o grande ambito noi siamo sovrani del nostro tempo. Il figlio “sovrano” è colui che sostanzialmente si autorizza da sé.

“Il mondo sovrano – scrive Bataille nel suo La Sovranità– è il mondo in cui il limite della morte è soppresso. La morte vi è presente, la sua presenza definisce questo mondo di violenza, ma se essa è presente, è sempre per essere negata, sempre e solamente per questo. Il soggetto sovrano è colui che è come se la morte non ci fosse”.

La sovranità è essere al mondo, stare al mondo come chiunque starebbe al mondo fuori dal pensiero della morte (in quanto di morte, lo sappiamo, abbiamo solo pensiero). Ma tutto ciò non è facile. Tuttavia esiste possibilità, esiste un modo:

Paterna è la legge la cui formula è “Agisci in modo…” ma non “Agisci bene per forza”. Questa regola ha il potere di trasformare qualcosa che è già reale, in quanto sensibile, in modo tale che essa passi dal non essere nel possesso di qualcuno al regime dell’essere possesso di qualcuno. I costituenti della legge paterna sono i figli, non i padri.

Il figlio che “perde” il padre è un orfano. Il problema interviene quando il figlio fa della propria nuova situazione un pensiero di mancanza e di differenza, un pensiero di risarcimento e di diritto ad avere soddisfazione gratuita dall’altro (amici, stato, assistenza,, etc,) in quanto ha subito una ferita.

L’uomo non può mai essere regolato da un ordinamento giuridico che funzioni identico per l’intera sua esistenza, nella totalità del suo comportamento e delle sue manifestazioni esteriori o interiori, nel suo agire, volere, pensare e sentire: a volte ci sentiamo orfani anche se nostro padre e nostra madre campano ancora e per altri decenni camperanno. Ci sentiamo orfani della regola e a volte ci rivolgiamo a regole pericolose, perniciose o perverse. Ma questo perchè siamo umani e non possiamo pretendere coerenza e costanza dalla nostra “limitatezza” umana. E, soprattutto, dobbiamo accettare che ci ammaliamo.

La vera teoria patologica, quella della nevrosi più acida, è la schiavitù dal pensiero di “penuria delle risorse” (concetto già incontrato) che recita: “dato che non ce n’è per tutti val la pena di non muoversi” (parlando proprio di una pena che porta vantaggio e dunque vale come opposizione alla chiamata, all’abbandono della quiete, che il moto determina). E’ quella del pensiero che non siamo abbastanza per essere amati (soprattutto e prima di tutto da se stessi).

Ecco, io penso che queste due siano la cause principali della patologia: pensare che non abbiamo diritto alla ricchezza e pensare che non siamo amati (da noi stessi e dall’altro).

Invece guarigione vuole dire “fine della fiera”, anzitutto di un sistema di pensieri, perchè la guarigione è anzitutto guarigione di pensieri. Se finchè, andando a letto questa sera, io avrò ancora bisogno di pensare che se ho qualcosa qui o lì che mi fa male è colpa dei miei genitori, io sono nel pieno della mia patologia antecedente, nel modo più grave e permanente, fisso e ripetitivo.

Chiaro che la guarigione sta nella formulazione del giudizio che i propri genitori sono figli anch’essi. Non “sono stati” figli, ma lo sono “tutt’ora”. Tra uguali ( pari ) si può allora stipulare il patto.

 

 EREDITA’ (CONCLUSIONE)

 

Il padre non è l’uomo dello “status quo”, non è il soggetto della “conservazione”, ma quello del movimento e dell’”impresa”. Il padre, il padre virtuoso, agli occhi del figlio è colui che della propria vita fa una “costruzione”, proprio un “imprenditore di se stesso”, quel soggetto che sa tirare fuori da dentro di sé la propria ricchezza. La propria soddisfazione, che poi sarà aiuto alla soddisfazione del proprio figlio.

Ciò che il padre è chiamato a lasciare in eredità al proprio figlio è proprio la soddisfazione, la strada per raggiungerla, gli strumenti per il suo ottenimento, se vogliamo anche l’esempio, l’indicazione attraverso il proprio coraggio e il rispetto della regola.

Noi sappiamo che il primo pensiero di ogni bambino, e ci mancherebbe altro che non fosse questo, é : “Come faccio per essere felice, per essere soddisfatto?” (questione sempre aperta in questo lavoro). A partire da questa sua domanda egli si guarda in giro e incontra i suoi primi esempi, padre e madre. Il bambino non cerca idoli da imitare, ma cerca qualcuno che gli spieghi “come si fa”. Qual è allora il sano pensiero (pensiero produttivo) del bambino di fronte al padre soddisfatto?

“Posso diventarlo anche io”. Allora il bambino si sente investito di un senso, vede davanti a sé la sua possibile storia, si eccita anche a pensare a tutto quello che il proprio padre ha fatto.

E il bambino allora si mette in arnese di produrre un pensiero che porti alla stessa meta a cui il padre è giunto, beneficiandone della eredità che il bambino già pensa e capisce di ordine universale, che trascende il suo stesso padre, che è la stessa di tutti i bambini che riescono a fare il suo stesso pensiero.

Il pensiero del bambino nasce dalla domanda: “Ma come avrà mai fatto”? E presto il bambino si accorge che la soddisfazione è sempre “soddisfazione dall’altro”, ovvero soddisfazione che il padre ha tratto dai suoi altri, amici, compagni, occasioni, donne, uomini, altri, insomma. Poi la domanda: “Ma come avranno fatto gli altri”? A soddisfare il padre. E qui il bambino incontra il pensiero di “volontà”.

Il papà ha fortemente voluto essere contento, essere soddisfatto perché ha saputo affidarsi agli altri.

La volontà del padre, se la relazione è sana, diviene poi la reciprocità delle volontà con e degli altri, questa sarà la scoperta del bambino in merito alla ereditabilità della soddisfazione, la reciprocità delle volontà. Se con la volontà c’è arrivato lui, con la stessa volontà ci posso arrivare anch’io ad essere soddisfatto: basta che impari. E dunque il bambino si aprirà alla compagnia, al gioco, alle relazioni con coetanei, alla comunione dei suoi giochi con altri amichetti.

L’uso della propria testa per raggiungere la propria soddisfazione, ma anche la propria diversificazione, diviene una strada per il figlio, anche il bambino piccolo. Il figlio non deve imitare il padre. Lo può ammirare. Se vuole.

Ecco. Il beneficio ereditabile dal bambino che tante domande si pone è l’ aretè del padre. “Coraggio” che intende la vita iscritta alla sconfitta rappresentata dalla morte, e la virtù è il capire questo. Allora la accettazione della sconfitta rappresentata dalla morte sarà il riscatto vitale dell’umanità.

Sappiamo benissimo, lo abbiamo già visto in precedenza, come possa portare più danni al figlio un padre pauroso che una madre paurosa, per il semplice fatto che dal padre il figlio si aspetta il coraggio.

Allora che cosa significa essere padre? Significa avere una vera passione. Ma non nel senso in cui il padre di Schreber, già incontrato nel nostro percorso, era appassionato per la ginnastica da camera (vedi il caso clinico di Freud Il Presidente Schreber).

Avere delle passioni significa essere uguale a tutti gli altri, nel senso che tutti noi viviamo di passioni, e di attrazione per le passioni. Se siamo sani.

La passione del padre è il non dannarsi l’anima per essere appassionato, è vivere la passione come “normalità”.

Scrive Carlo Formenti in Piccole apocalissi riferendosi al testo di H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz: ” Nelle ultime righe del suo scritto, Hans Jonas, cita un’allegoria assai diffusa nella fede popolare legata alle tradizioni della Kabbalah e del Chassidismo. Essa racconta che in ogni generazione non dovrebbero mancare almeno trentasei saggi che avrebbero la funzione di controbilanciare un senso di colpa incalcolabile. (…) Il mito filosofico di Jonas evoca la figura di in Padre che ha creato il mondo al prezzo della rinuncia all’onnipotenza, racconta il sacrificio di un Padre a cui dobbiamo la nostra esistenza, e ci ispira il sentimento della pietà, assieme alla responsabilità di una eredità che ci lascia liberi di scegliere per il bene o per il male”.

Introdurre qui il concetto di eredità significa pensare alla libertà del soggetto posto di fronte al più radicale dei bivi, la scelta del bene o del male. Freud affermava che compito della psicoanalisi non è quello di fare scomparire il male ma quello di portare l’individuo alla capacità di scegliere la malattia o la salute. Eredità è il padre che consente la libertà di tale scelta.

Il padre della eredità, quello nel quale noi possiamo più facilmente intenderci come soggetti liberi e nello stesso tempo alla pari, non è il padre anziano che sta per trapassare, non è il vecchio. La eredità non ha a che fare con l’abbandono della vita da parte del genitore. L’ identificazione buona, quella che porta al successo della operazione, è quella con il padre giovane, il padre ragazzo (“A me piace mio padre in una foto di quanto aveva vent’anni”). Concetto tanto presente in questo percorso.

Il padre “giovane” è quel soggetto che alla domanda di regola che il figlio gli rivolge, può rispondere che lui ne ha la capacità ma non è il costrittore vecchio e anziano che ti dice “cosa fare per forza”, perché è giovane, è un ragazzo anche lui, è come il figlio, siamo alla pari. E’ il giovane del coraggio e della aretè. Lo stato del figlio verso il padre è del “non ancora”, del dubbio, dell’aperto. Ragion per cui il pensiero di padre giovane è quel pensiero che più autorizza il figlio al lavoro di composizione delle regole “assieme” al padre.

Il padre giovane è il padre che più è esposto all’errore, dunque quello più “abbordabile” da parte del figlio, se così si potesse dire, quello che mi fa sentire la legge più vicina a me in quanto in essa è compreso l’errore. Il padre vecchio, si sa, è sempre arteriosclerotico e l’errore ( del figlio) gli è sempre indigesto.

Sembra a questo punto molto interessante la questione del “padre amoroso” posta da Formenti nel testo che abbiamo appena citato e il misto di pietà e responsabilità che dovrebbe animare il figlio nella propria esistenza di relazione con il proprio padre.

Il nostro compito è un compito di paternità, di una paternità nei confronti non solo dei nostri figli, ma anche dei nostri simili e della natura che, come quella divina, si acquisisce solo al prezzo della rinuncia alla onnipotenza. Possiamo generare solo abbandonandoci a nostra volta al rischio del tempo, alla sfida della molteplicità e del caso in cui è connaturata la possibilità dell’errore, della sconfitta e del male.

Il padre è quel soggetto che dona al di fuori dell’ esibizione (come già visto in altro momento), del parlare del proprio dono, della propria eredità. Il padre della eredità è quello della sorpresa, dell’inaspettato. “Il padre tuo che ti guarda in segreto ti compenserà” (Matteo, 6,4; 6; 18).

En tò kryptò, – commenta Antonio Capizzi in L’uomo a due anime – in segreto; il fare bene in segreto, contrapposto al ‘fare bene palesamente’ (…) L’intero messaggio evangelico è imperniato sulla concezione della verità come palesare ciò che è nascosto. Gesù non vuole, come si è visto, che siano noti i suoi miracoli”.

Il padre è sempre, per quanto può, l’essere del silenzio. Colui che ha un talento ma lo tace (e per questo la fa funzionare).

Il padre ha sempre una causa da difendere (anche quella del silenzio).

A muovere il coraggio è solo una causa da difendere: chi non ha causa non può neppure avere coraggio.

Il padre è “nudo” allora, in quanto lascia vedere tanto la propria forza quanto la propria debolezza. Forza e accettazione della debolezza sono contenuti della eredità del padre.

Scrive Massimo Cacciari in Icone della Legge che “Il singolo appare nudo di fronte al Padre: esistiamo col padre, l’esserci è con lui”. E l’esserci nel padre a volte è l’esserci nella Festa, nel fest-Tag, in una festa che può essere il compimento della relazione tra padre e figlio.

Il padre è il padre della festa in quanto si pone come “sì possibile (se il figlio se lo merita)” in opposizione al “no garantito” della nevrosi. Il padre della festa è un segno (e non un sogno), che piacere è quello meritato, che io figlio vi posso avere accesso di diritto se mi do da fare.

La speranza è lo stesso stare con il padre, i due corpi vicini, i due pensieri vicini. L’origine del figlio è il pensiero di essere continuamente originato dall’altro nell’atto della speranza, nell’atto del lavoro dell’altro per noi. Sperare è uno tra i più economici dei verbi.

Va da sè allora che quello che si eredita è la speranza del padre e dal padre come forma e sostanza del moto.

L’eredità è speranza che dal coraggio che io saprò avere l’altro capirà se essere favorevole o meno per me.

Eredità è soprattutto speranza nella “conservazione del primitivo (Erhaltung des Primitiven) nel campo psichico” così come ne parlava Freud in Il Disagio della Civiltà, conservazione della salute dell’inconscio sano in quanto si nasce sani. Il pensiero “si nasce sani” equivale al pensiero “c’è un lavoro dell’altro per me, nel senso che mi lascia una eredità”. C’è qualcuno che, anche quando dormo, in qualche modo pensa al mio interesse, pensa a me con amore.

Festa è lasciarsi andare a se stessi. Lasciarsi andare all’altro come portatore sincero del mio bene: “insegnamento del padre / domanda del figlio”.

Speranza, nella accezione greca dell’ elpis cioè della volontà che tra padre e figlio recita “voglio il bene tuo e il mio” attraverso il lavoro nel tempo.

Speranza non può trascendere dal riferimento costante alla diversità dell’altro.

Scrive ancora Massimo Cacciari nell’opera citata: ” Non semplicemente ‘ non c’è origine’ ma ‘l’origine è l’Altro’; non semplicemente ‘non c’è proprietà o identità’, ma il migrante stesso è in sè diviso, ripete in sè la tradizione come dislocazione perenne, e l’origine come alterità”.

Non dell’altro che ha lavorato per me e che ha … lasciato qualcosa, ma dell’altro che è tale, ovvero altro, come fonte della mia origine, non una tantum ma ventiquattrore su ventiquattro. Io figlio penso che mio padre mi ha generato non “quella” volta, ma per tutto il tempo della mia vita. Mio padre è il compagno che mi accompagna.

L’essere therapon o comes dell’altro non può essere inteso se non dentro la questione del coraggio di un atto, di una serie di atti da intendersi tutti quanti inseriti in “un atto d’amore”: il servizio è nobile in quanto il coraggio lo nobilita. Per questo è vero che a ricevere una eredità si è dei privilegiati in quanto “il privilegio è il regime della libertà del soggetto nella libertà dell’Altro” (G. Contri, Leggi).

“ Si nasce sani “ perché questa è la realtà del destino umano, poi ci si ammala, e poi si può guarire.

E la natura umana, che è tutta leggibile nel rapporto padre/figlio, diventa una questione personale, sempre, tra padre e figlio: in questa “questione personale” ogni tipo di pensiero diventa “pensiero di salute” .

“Che io sto bene “è il pensiero della reciprocità dei pensieri tra figlio e padre: ognuno si interessa della salute dell’altro, “come stai?” ci chiede uno. Noi non possiamo rispondergli che “Bene, e tu?”. Se cominciamo a snocciolare le nostre lamentele (pure magari giustificate), la conversazione si conclude ben presto.

Essere ben pensati è una priorità, ma anche ben pensarci (“Sto bene, e tu”). L’altra è il pensare bene (all’altro). Proprio così, nulla di più naturale che un padre e un figlio che vivono nella soddisfazione di dare e ricevere eredità (cioè dirsi a vicenda che stanno bene, anche se poi poi tanto bene non stanno). Coraggio. Strumento è il Verbo, sempre la parola di speranza.

Il Verbo del verbo (che è la cifra dell’atto e del movimento verso l’altro) è il “chiedere” (e qui la conclusione).

“Chiedete e vi sarà dato” potrebbe essere la messa in pratica del patto tra padre e figlio, la messa in cantiere di un lavoro per il godimento dell’eredità. Sappiamo infatti che non esiste soddisfazione se di essa se figlio e padre non nutrono sufficiente volontà.

Ad aprire la strada per la soddisfazione è la domanda, la costante domanda verso quello che ci “chiama” nella vita (in quanto noi tutti nella vita abbiamo una vocazione). Non si tratta di raggiungere mete o traguardi, ma semplicemente (e umanamente) di dare un senso alla propria esistenza, perché il tempo non ci scorra come sabbia tra le dita.

Chiedere è l’ammissione di una propria mancanza (passaggio fondamentale per accedere poi alla soddisfazione), è l’ammissione del proprio limite, della propria incerta e precaria natura umana, della propria fragilità che solo in questo modo, chiedendo, però “vuole” diventare forza. Chiedere è la voce che spetta all’uomo tanto di dovere quanto di diritto.

E anche se al figlio che chiede al padre non sarà dato “quello” che chiede, la strada del chiedere sarà sempre per lui strutturante la propria personalità, sarà esercizio civile di relazionarsi con il mondo. La domanda sarà un dato imprescindibile appunto per percorrere ogni tipo di strada, per mantenere sano il proprio pensiero, per relazionarsi nell’amore, per affrontare il proprio lavoro, per fare fruttare i propri talenti, per superare le difficoltà e il dolore.

Direi dunque, in conclusione, che la vera e propria eredità che un padre può “lasciare” al proprio figlio è quella di imparare a domandare, domandare agli altri ma soprattutto domandare a se stesso. E questa domanda si dirige sempre verso la soddisfazione, si dirige verso il diritto a viverla, il diritto a farla provenire dall’amore e dal lavoro, di farla poi ricadere sui propri figli invitati, a loro volta, a chiedere, e sempre chiedere.

Il pensiero che il figlio è chiamato a fare, dal rapporto di una vita con il proprio padre, è che ha diritto alla soddisfazione . Questo è il lascito paterno più prezioso, quello più caro, quello più produttivo, quello più amorevole, quello che fa sentire al figlio la forza del padre e anche al padre la forza del figlio (anche, semmai, figlio e padre dovessero vivere la debolezza della relazione, la debolezza del proprio personale camminare).

 

GUIDO SAVIO