- Psicoanalisi-Pratica.com - https://psicoanalisi-pratica.com -

GUIDO SAVIO: FIGLIO E PADRE – NEL NOME DEL PADRE – (SECONDA PARTE)

 

 

GUIDO SAVIO: FIGLIO E PADRE – “NEL NOME DEL PADRE” -(SECONDA PARTE)

 

 

LA VOLONTA’ DEL PADRE

 

Dividerei questo discorso in tre parti:

1 – quello che il padre reale realmente vuole dal figlio

2 – quello che realmente il figlio risponde alla domanda del padre

3 – il pensiero che il figlio fa di se stesso in merito alla domanda che il padre gli fa.

 

1 – Il padre “chiede” al figlio sostanzialmente che si realizzi nella vita, gli chiede di seguire i dettami e le regole di vita che hanno permesso al padre stesso di vivere, magari di diventare qualcuno. Il buon padre chiede anche al figlio di rendersi indipendente per vivere. Questa, a grandi linee, è la volontà sana del padre.

2 – In che modo può rispondere il figlio? Il figlio che non ha ancora avuto il “tempo materiale” di costruire una risposta a questa domanda? Il figlio potrebbe rispondere a questa domanda del padre solo a bocce ferme, quando anche lui avesse esaurito il suo tempo, e allora mostrerebbe, carta cantat, quello che è riuscito a fare. Quindi il figlio porta sempre con sé il pensiero della domanda del padre, nel bene e nel male.

La “domanda” del padre è una domanda “frazionata” nel tempo alla quale il figlio si trova di fronte nelle sue varie “frazioni” di vita, e risponderà con le forze che ha in corpo in quel tempo. La domanda del padre non è quella dei cento milioni,, “rendimi conto della tua vita in tre secondi”, ma è la domanda che il figlio deve sapere adattare alle sue capacità particolari e temporali di risposta. Tempo al tempo. Per questo dobbiamo riconoscere sempre e ovunque perniciosa la frase del padre al figlio “…ma io ai tuoi tempi”. I tempi per padre e figlio sono diversi, assolutamente diversi, biblicamente diversi nel senso che… “c’è un tempo per, c’è un tempo per e c’è un tempo per.”

Il padre reale è cosa diversa dal “padre idealizzato”. Ci sono molti padri che idealizzano se stessi e molti figli che idealizzano il padre.

Il padre reale, se si libera dalla idealizzazione di se stesso, potrà conservare tutta la sua caratteristica di “modello”, ovvero sarà approcciabile dal figlio, essendo per l’appunto un padre in carne ed ossa, con il quale parlare e con il quale fare i propri conti.

Ma se il padre resta (per volontà propria o per volontà del figlio) sull’altare della idealizzazione, non sarà possibile nessun rapporto tra i due. Il tempo e lo spazio saranno troppo estesi perchè ci sia un contatto e una risposta, perchè ci sia possibilità di distinguere il proprio corpo e la propria voce. Il figlio si confronterà con una “astrazione”, per l’appunto il padre idealizzato, e non ne trarrà niente di buono se non frustrazione e dileggio.

Mentre se il rapporto avviene tra due soggetti “reali” si può instaurare tra loro quella sana pratica della ammirazione che permette al figlio di arricchirsi della forza paterna, e al padre di godere dell’amore filiale.

3 – E’ questo il punto più delicato del rapporto tra figlio e padre in quanto implica la strutturazione del pensiero autonomo del figlio. Allora il figlio, in quanto tale, vive, sente, avverte su di sè la “presenza” della domanda di un soggetto che “nato” prima di lui e dal quale lui stesso ha preso vita, che in qualche modo gli chiede “conto” (è una parola troppo forte, ma io ho sperimentato che spesso è così) della vita stessa.

Il figlio si sente normalmente “domandato” sul posto che occupa nel mondo, sul prodotto che egli dal mondo riuscirà a realizzare, sul suo essere costruttore di se stesso. E’ il padre che domanda. E tutto ciò è bene. E’ bene che il figlio senta su di sè la “volontà” del padre, ovvero di un soggetto non che vuole per forza da lui qualcosa, ma di un soggetto che vuole il suo bene, che lo chiama a volere il proprio bene, che lo motiva e lo spinge alla realizzazione.

Questo il figlio sente su di sè, ma di questo non deve prendere paura o avvertire sentimenti di inadeguatezza o di inabilità. Semmai può sentire un pensiero, ancora, di fede. Un pensiero di qualcuno che crede in lui, di qualcuno che lo conosce e proprio per questo lo stima nel proprio progredire, lo aspetta nei propri tempi, anche morti, e lo incentiva nelle assenze.

In questo modo il figlio pensa: “C’è qualcuno, non uno qualunque ma mio padre, che mi sta chiedendo, per il mio bene, di lavorare per me stesso”. Questa è la possibile strutturazione della risposta alla terza domanda.

Se la domanda del padre (che poi altro non è che un “pensiero”) dovesse essere: “Che cosa vuoi da me?” la risposta non potrebbe che essere: “So che tu vuoi da me il mio stesso bene”.

Per questo motivo è fondamentale che il padre pensi sempre a se stesso come “figlio”, ovvero come una persona incompleta, “riempibile” da altri ( anche dal figlio stesso, percorrendo la stessa strada), non una persona già compiuta e finita, alla quale il figlio si deve riferire come obbligatorietà per le proprie scelte. Altrimenti il padre ritornerebbe ad essere il padre idealizzato che non può fare, da troppo forte che è, che danni al figlio stesso. Il padre che saprà rendersi “raggiungibile” dal figlio è quel padre che usa autoironia con se stesso, quel padre che “lascia sbagliare perché anche lui ha sbagliato”.

Da qui, e solo da qui, verrà al figlio l’insegnamento “a fare giusto”. La volontà del padre non può essere sentita dal figlio come un “diktat”, come un dettame troppo diretto e “costringente” per realizzare la propria soddisfazione, bensì sentirà la volontà del padre una indicazione verso il proprio modo di raggiungere la soddisfazione.

“A me piace mio padre in una foto di vent’anni” potrebbe essere la frase che il figlio pronuncia quando accetta la volontà del padre, che tanto “siamo tutti e due uguali (figli)”.

C’è un bel passo a riguardo del padre giovane ne Il primo uomo di Albert Camus. “ Fu in quell’istante che lesse sulla lapide la data di nascita del padre, scoprendo nello stesso tempo di averla sempre ignorata. Poi notò le due date – 1885-1914 – e fece un rapido calcolo: ventinove anni. Un pensiero lo colpì all’improvviso e lo scosse. Lui di anni ne aveva quaranta. L’uomo che giaceva sepolto sotto quella pietra, che era stato suo padre, era più giovane di lui”.

E ancora Cesare Pavese in La luna e i falò : “Scherzammo, dicevo, forse adesso salterà fuori anche mio padre. ‘Tuo padre – mi disse – sei tu’. In America –dissi – c’è di bello che sono tutti bastardi”. Ovvero tutti figli, magari figli illegittimi, ma di un padre giovane.

E ancora Erri de Luca, dal suo In alto a sinistra .: “Ci sono uomini che morendo chiudono dietro di loro un mondo intero. A distanza di anni se ne accetta la perdita solo concedendo che, in verità, morirono in tempo”.

Il pensiero del padre “da giovane” è il pensiero che noi tutti, padri e/o figli, in qualche modo, superando le nostre difficoltà conservative, dovremmo sentirci giovani.

Pensiero positivo è che padre e figlio si possano trovare in un tempo che entrambi hanno vissuto “insieme”. Anche se su generazione diverse.

Abbiamo visto in precedenza l’aiuto reciproco: figlio e padre e padre e figlio si possono aiutare solo nell’ambito di intendere il loro desiderio soddisfacibile l’uno dall’altro. Se il figlio si pensa non desiderato dal padre è una sofferenza. Ma se il padre si pensa non desiderato dal proprio figlio è un dramma mortale.

Il non essere accettato del padre (dunque criticato, manomesso, sottomesso, sminuito, distrutto, moralmente messo in croce, rifiutato, etc.) da parte del figlio, è la peggiore situazione in cui un padre si possa trovare: il mondo gli potrebbe anche crollare addosso. Per questo il pensiero di “perdono” (dato e avuto) è fondamentale nel rapporto tra figlio e padre. Il pensiero positivo del padre, di fronte ad un simile attacco, non reggerebbe.

Quando ho anticipato il tema del perdono volevo solo intendere come il punto più difficile per il padre nello svolgere la propria funzione sia quello di accettare “chi” sia stato il proprio padre, nei suoi pregi ma soprattutto nei propri difetti. Ognuno ha avuto un padre e quel padre deve essere “riconosciuto”.

Il padre che non accetta il proprio padre non accetterà nemmeno il proprio figlio.

Per questo motivo la foto del proprio padre a vent’anni dovrebbe fare campo in ogni comodino di padre. Vedersi “come si era”, anche per interposta persona, diviene fondamentale quando si tratta il bene dell’altro, il bene del proprio figlio. Magari proprio a quell’età.

La “volontà” che il padre esprime sul proprio figlio sarà dunque una volontà “democratica”, in cui ognuno è pensato, e si pensa, capace di usare la propria testa. Ognuno si pensa soggetto sovrano, capace di rispettare ma soprattutto di essere rispettato in quella che è la sua spettanza, la sua possibilità di avere e di essere.

Per quale motivo certi figli “assomigliano” ai genitori e certi altri sembrano venire da altri universi rispetto a padre e madre? Risposta certa, ovviamente non esiste, tuttavia su questa questione si può fare un semplice ragionamento.

La relazione figlio/padre non è una cascata in cui tutto quello che sta sopra si riversa automaticamente in quello che sta sotto. Nemmeno questa relazione è regolata da dettami deterministici per cui se un genitore si comporta in un certo modo “avrà” dei figli conseguenti al suo comportamento. Lo abbiamo già visto in precedenza con le madri ansiose.

E’ chiaro che questo pensiero potrebbe destabilizzare molte teorie psicologiche, specie quelle comportamentiste, secondo le quali è possibile una “costruzione” del figlio da parte dei genitori. Se così fosse il nostro mondo sarebbe un mondo di replicanti o di cloni. Per fortuna il caso o la irrazionalità entrano in tutte le relazioni, specie quelle primarie, e fanno in modo che non esista un regime preordinato di causa ed effetto in nessuna relazione umana. Dunque neppure in quella tra padre e figlio e figlio e padre.

I nostri figli crescono “con” noi genitori e anche, per fortuna, ”malgrado” noi genitori.

Il padre sta meglio se tratta meglio il figlio e il figlio sta bene se meglio si sente trattato dal padre.

Il benessere della relazione padre e figlio non si coglie al momento, ma nel tempo. Quello che si vede ora non sarà quello che si vedrà domani.

 

 

IL NOME DEL PADRE

Lacan e Foucault non avevano dubbi in merito: nominare le cose e le persone significa dare loro un “senso” (proprio quello che si diceva in merito alla soddisfazione).

Il senso della vita, delle cose materiali, dei beni, del danaro, del pensiero, dello spirito, delle norme sta nel “nome” che ad esse noi attribuiamo.

Vengo subito alla pratica, nel corso della quale a me è capitato in svariate occasioni di capire che il figlio “chiamava” il proprio padre con il proprio nome di battesimo: Franco, Alberto, Gino, Giuseppe. La cosa mi ha sempre da un lato incuriosito ma anche allarmato. Che cosa vuol dire che il figlio chiami il proprio padre con il suo nome di battesimo? Amicizia? Sorpasso del gap generazionale? Discredito? Identificazione con il chiamare della madre? Evitare la competizione? Sentirsi maturi da parte del figlio?

Ancora oggi non ho una risposta “clinica” ma sento dentro che la cosa, così com’è, non funziona. E così non ha funzionato per tutte quelle situazioni in cui si è verificata. Come pure non ha funzionato il fatto che a certi figli siano stati dati certi nomi “strani”, curiosi, poco seri, modaioli, dubbi, Sandokan, Samantha con tre “h”, Dominica (quando basterebbe “Domenica”), Custer o Jeronimo, Che o Miroslav, Arlo o Arvo (so che i cultori musicali sapranno cogliere la differenza), e compagnia cantando.

Ma questa questione dei nomi dei figli non è quella su cui voglio dire più di tanto (e ce ne sarebbe!).

Ciò di cui voglio dire è il “salto” linguistico/verbale/generazionale/autoritativo, che ha a che fare con il figlio che chiama il padre con il proprio nome di battesimo.

In un vecchio saggio Diego Napolitani scrive queste cose: “ Compete all’uomo, dunque, di potere, ad un certo punto della sua vita e all’interno di particolari circostanze sociali, essere nominato ‘padre’. Ma ricevere (o dare) un nome, essere (o avere) nominato, propone una radicale biforcazione semantica: da un lato si pone la ‘nomina’, che è quell’atto pubblico con il quale chi ne ha autorità propone una persona ad un ufficio e le conferisce una corrispondente dignità ed autorità, e dall’altro lato si pone la ‘nominazione’ che è quell’atto linguistico privato per il quale un evento viene chiamato o evocato per una sua qualità essenziale, riconosciuta come ciò che lo differenzia da tutti gli altri eventi”.

Infatti si nomina un ministro, un giudice, un arbitro, e con questo atto gli si conferisce un “ufficio”. E al padre si può attribuire un ufficio. Deve infatti essere nominato tale da chi del suo posto fa rifermento, cioè il figlio. Nominato vuol dire essere chiamato non per nome ma per “posto”, per ufficio, tutti i santi giorni: “papà”, non Franco, Alberto, Gino, Giuseppe. Il figlio ha un posto, che è quello di figlio. Il padre ha un posto, che è quello di padre: ciò è sancito da una regola non scritta ma funzionante da millenni che dice che il figlio chiama il proprio padre “padre”.

Tempo fa, in occasione della commercializzazione, come al solito, di una festività religiosa (S. Giuseppe che diventava Festa del Papà) si sentiva in televisione una pubblicità che invitava i bambini italiani a spendere qualche spicciolo per fare contento il proprio genitore. Un bambino diceva: “Il mio papà ha un bellissimo nome, ma io lo chiamo ‘papà’”. Ovvero, il bambino sceglieva la nominazione universale del proprio padre, non il nome proprio del padre che è dializzare la relazione, sceglieva (ma sorprende che il fine morale sia stato preventivato dai pubblicitari) la legge dell’universale paterno.

Nulla di più e nulla di meno.

La nominazione di padre è dare il posto ad un uomo, uomo della donna da cui sono nato, uomo della mia economia ancora instabile, uomo del mio sogno, uomo della mia disdetta, uomo del mio conflitto o uomo della mia ammirazione, in ogni caso uomo padre.

Ragionando su queste cose mi è sempre venuto in mente se Cristo figlio avesse chiamato il proprio padre con il nome di battesimo. Come lo avrebbe chiamato? Non si sa. Non c’è scritto. Forse sarebbe stato un flop. Forse, e questo che conta, nessuno gli avrebbe creduto. A Cristo gli hanno creduto perchè ha sempre chiamato il proprio padre con il nome di “Elì”, cioè padre con la “P” maiuscola.

L’influenza del padre è quella di un uomo che sta al suo posto mentre parla e agisce nei confronti di un altro “uomo”, che è il proprio suo figlio. Sia esso anche un treenne, perché anche un bambino piccolo è un soggetto di diritto e deve essere trattato come sovrano delle proprie scelte.

Il padre merita la nominazione dal figlio se sa “tenere” le distanze. A partire dal nome. Non è la questione: “Mi dia del lei”, ma è la questione che il fatto che abbiano lo stesso sangue (padre e figlio) non impedisce loro di avere una relazione civile (che non comprende il sangue ma il merito: ogni padre merita il proprio figlio e ogni figlio merita il proprio padre: le patologie sono sempre di relazione).

Una donna, moglie, madre, chiamava il proprio marito con un soprannome dell’ infanzia, non lo ha mai chiamato nè con il nome proprio, nè davanti a lui e nemmeno davanti al figlio: come dire al pover’uomo: “Tu, nella funzione che esplichi dentro questa casa, non esisti, esisti solo come ti chiamavano i ragazzi tuoi amici all’età delle bisbocce, non sei mai cresciuto (e dunque nemmeno io sono cresciuta)”.

Non credo che altri commenti possano approfondire la questione.

Le scelte hanno sempre un nome. Ma allora come ci poniamo noi madri e padri, quale dovrebbe essere il nostro posto in riferimento alle scelte dei nostri figli? E i nostri figli fanno per davvero scelte oppure si lasciano portare dall’onda, e noi “grandi” dobbiamo stare sempre attenti che l’onda non li anneghi? La scelta del figlio è legata al posto che il padre (e la madre) occupano e che al figlio fanno occupare.

Non dobbiamo nasconderci dietro un dito, ma il nostro “substrato ideologico” di madri e padri è che noi uomini e donne sappiamo, più o meno, in che cosa consista una “scelta” (perché la nostra vita ne è stata costellata), mentre i nostri figli, che la vita hanno appena cominciato a viverla, non sempre conoscono correttamente i termini della questione. La scelta, per i nostri figli, è un grande salto da un lato, oppure una grande inibizione dall’altro: l’azione di scegliere, per il figlio, palleggia tra queste estremità: il non poterla fare e la paura di farla. Ovvio che poi esista anche la scelta normale e corretta.

Sta qui la questione della “nominazione” del padre. Il figlio sceglie sempre se ha “qualcuno” davanti: chiunque esso sia, ma qualcuno che in qualche modo si è avvicinato alla sua scelta in passato, oppure in passato l’ha fatta. Il figlio si “lascia andare” se sa che il suo percorso di vita è stato percorso da qualcun altro anni prima. Cioè il padre (o chi per esso, potrebbe essere anche la madre).

Il figlio nomina il padre come “qualcuno” che ha fatto qualcosa prima di lui.

Lo ha fatto bene? Lo ha fatto male? Ha fatto bene o ha fatto male il bene di chi?

Il bene di chi? Non è semplice per un padre intendere quello che possa essere il bene del figlio, trattandosi sempre di un bene “relazionale”, mai assoluto. Ovvero di un bene che deve “funzionare” tra due persone, anche se il maggior beneficiario è il figlio.

Voglio semplicemente dire che il padre può favorire o impedire l’autonoma scelta del figlio in riferimento al proprio bene, tuttavia dovrebbe sempre tenere conto che quello che è il suo pensiero sul bene del figlio, è un pensiero che il figlio terrà in grande conto, anche se farà una scelta diversa da quella suggerita dal padre. Non esiste un bene assoluto, esiste un bene che dice che è bene mantenere, per quanto possibile, la relazione più a lungo possibile: questo è il pensiero (molto recondito ma molto “effettivo”) tra padre e figlio: “più è interesse tuo e più è interesse mio”.

In questa dimensione può essere colta l’importanza della “nominazione”: “ti chiamo in un certo modo e non in un altro perché è nel mio interesse chiamarti ‘padre’ e non Franco, Alberto, Gino, Giuseppe…” .

Poi avere nome, o dare nome, è sempre dare il proprio “consenso” ad essere chiamati in quel modo e non in un altro. E’ rispondere, in qualche modo (non sempre e non pregiudizialmente) alla domanda del figlio in modo “positivo”. Dà risposte chi è in grado di darle. Dà risposte chi è nella funzione, nell’ufficio di darle. Dà le buone risposte chi della propria vita ha fatto una esperienza della possibile soddisfazione.

In altre parole, lo sappiamo, il padre soddisfatto è più propenso a dare il proprio “sì” alla domanda del figlio. La risposta del “sì” è la risposta della fede in chi fa la domanda. Perché c’è conoscenza di chi chiede. Il padre dovrebbe sempre sapere. Il padre ingenuo o ignorante (le cose del figlio) è un padre dannoso, per sè e per il figlio.

Quando si dice che il padre è il soggetto del “sì”, si intende per l’appunto quel soggetto che lascia libertà al figlio di scegliere, meglio, segue la scelta del figlio, e pronuncia giudizio di valore su tale scelta nel momento in cui la vede già in testa del figlio.

Se mai il figlio dovesse chiedere al padre “bianco o nero?” il padre non risponderà se prima non avrà capito la predisposizione del figlio o per il bianco o per il nero. Non si opporrà. Solo in questo modo il figlio capirà se la sua scelta è giusta o sbagliata: dalla “presente” assenza del giudizio paterno. Io padre non mi sognerò mai di oppormi alla scelta che ho inteso che mio figlio ha fatto, verso il bianco o verso il nero.

Mi ha sempre incuriosito il ricordo di infanzia di una persona che veniva da me parecchio tempo fa. Il suo ricordo era che, alla sua domanda al padre, il padre rispondeva sempre; “No, dai”, che non so se sia una particolarità del dialetto veneto, ma che in ogni caso significa: “No, non insistere, non darti da fare ulteriormente, non domandarmi oltre, non “provocarmi” oltre”. Certo non una bella risposta.

Ed invece (come si diceva prima) se la domanda del figlio ha “già” una risposta dentro (e c’è per davvero), sta al padre capirla: non si può dire nero se il figlio ha già una propensione per il bianco: il padre deve sempre seguire, mai stare davanti. Quando il padre ha capito la risposta che il figlio ha dato alla sua stessa domanda, non può che assecondarla, se non lo fa crea nel figlio angoscia e irresolutezza.

Nominare dunque significa scegliere. E la scelta è sempre su bianco e nero (pur esistendo ovviamente la gamma degli infiniti grigi).

Allora un figlio chiede al padre se deve investire in banca un guadagno, oppure risistemare parte dell’appartamento che richiede un intervento abbastanza sollecito, o se dovrebbe dirgliela dura al datore di lavoro. Il padre non è dentro alla “economia” del figlio, e la domanda del figlio, il padre dovrebbe capirlo, comprende già la risposta (nel senso che farà quello che ha intenzione di fare indipendentemente dalla risposta del padre. La domanda, diciamo, è tanto assicurativa quanto pleonastica).

Il padre è quel soggetto che offre gratuitamente la propria presenza, non potrebbe farla pagare, non può “amare troppo”. E proprio per il motivo che egli si offre gratuitamente alla domanda del figlio, che il figlio gliene riconosce il merito. Il figlio gli riconosce il merito di stare al suo posto e di rispondere a tono (se il padre sa stare al proprio posto). Il tono è quello di chi ha capito come stanno le cose “indipendentemente” dalla domanda che gli viene rivolta, e non dispensa soluzioni forzate.

Infatti nessuno, nella vita, ti offre soluzioni, nemmeno il padre. Il padre potrà “indicare “le soluzioni, e sarà proprio questa sua “leggerezza” di comportamento nei confronti del figlio che dal figlio verrà riconosciuto come “merito”. Un padre che “impone” sarà sempre pesante, troppo pesante.

Ricordo che una persona che è stata in analisi per poco tempo parlava in continuazione della “indegnità morale” del proprio padre e del suo diritto a disprezzarlo per la sua pratica di vita. Il padre fu scoperto dal figlio come frequentatore di siti porno.

Il padre virtuoso invece merita il rispetto, l’onore del figlio. Il padre immorale merita il disprezzo, anche se noi sappiamo benissimo quanto sia difficile disprezzare il proprio padre, specie per il figlio piccolo. Il figlio dal canto suo è chiamato ad “onorare” il nome del padre solo sul banco di prova della libertà che il padre offre al figlio non “costringendolo” a riprodurre un modello (di vita) di cui egli è portatore e rappresentante coerente.

 

Scrive Fulvio Scaparro in Talis pater: “So per esperienza e per non avere dimenticato la mia adolescenza che i giovani prestano particolare attenzione alla coerenza degli adulti. Giungo a dire che la coerenza tra il dire e il fare li affascina a tal punto che possono ammirare colui o colei che predica e razzola male (dunque coerenza) piuttosto che un adulto, una Scuola, uno Stato incoerenti e contraddittori nelle parole e nella azioni ”.

Il padre il nome se lo deve meritare, attraverso la correttezza del comportamento morale e la coerenza tra il suo dire e il suo fare (anche se la cosa, lo capiamo benissimo, comporta non poche difficoltà).

Mi viene da dire che il “nome” di padre ce lo dobbiamo meritare perché la parola “padre” equivale alla parola “merito”: la parola “padre” pronunciata dalla bocca del figlio è una grande attribuzione di valore per le nostre orecchie. Pensavo ancora a proposito di quanto infantile e improduttiva sia la voce del figlio che chiama il padre con il suo nome di battesimo. Saltano autorità, merito, riconoscimento che sei stato tu a mettermi al mondo e a farmi crescere; salta il gap generazionale (che sempre deve esistere), saltano i posti, subentra la confusione. Per estensione potenziale si pensi al figlio che chiama col proprio nome il padre e che sente il proprio padre chiamare con il nome di battesimo il nonno: mi parrebbe una squadra di calcio, o una pattuglia scout! Tutti uguali, mentre tutti uguali non siamo affatto.

Un giovane uomo mi riportava spesso in seduta di come non gli venisse affatto di chiamare il proprio padre “papà”, perché era… troppo vecchio e lui si vergognava della vecchiezza del padre. Onestamente non ho mai capito se il figlio “avesse” ragione nella propria vergogna, oppure se il padre “meritasse” il ritiro della stima del figlio. Sta di fatto che ancora oggi questo giovane non si sa legare ad una donna perché, in qualche modo, “teme” il giudizio del padre, ovvero teme la sua stessa vergogna. Ed è difficile procedere nella vita quando si confondono le proprie manchevolezze con quelle degli altri, specie con quelle paterne.

Molti antropologi sono sicuri nell’affermare che la relazione genetica padre e figlio, per i popoli primitivi, non presentasse nessuna evidenza oggettiva: nel senso (terra terra) “mater semper certa est, pater nunquam”.

La scoperta infatti del contributo paterno nella nascita di un bambino è assai tarda nello sviluppo del pensiero umano a confronto della evidenza del contributo materno di per sé ovvio.

Ad esempio scrive Jacques Dupois, uno dei più grandi antropologi del secolo scorso, nel suo Storia della paternità che “Soltanto nel IV° o V° millennio (ovviamente prima di Cristo) le società umane più avanzate scoprirono la relazione che sussiste tra l’atto sessuale e la procreazione, prendendo così coscienza della paternità ”.

Lo storico Mircea Eliade scrive che, secondo la cultura primitiva, i bambini non vengono concepiti dal padre, ma a un certo stadio del loro sviluppo, entrano nel ventre materno in seguito ad un contatto avuto dalla donna con un animale o con un oggetto

Che cosa significa questo? Significa che il padre “deve fare un lavoro” per acquisire il proprio posto presso il pensiero del figlio. Lavoro che è più naturale invece e automatico nella madre, il figlio infatti “la” tocca fin da subito con mano.

Le cose infatti, sappiamo che vanno in maniera diversa per quel che riguarda la relazione della madre con il “suo” bambino: la donna, nella sua fisicità corporea e nella propria storicità è, sin dal momento del concepimento, evidenza di continuità tra se stessa e il frutto del proprio concepimento. La “naturalità” di questo evento, cioè di questa continuità, non ha bisogno di alcuna “nomina” che la dichiari o la sostenga. La madre è tale e basta, non c’è nulla da capire e da spiegare. Il padre invece deve essere capito, deve essere letto nella propria funzione, e qui la nominazione, deve in pratica essere “tirato fuori” dallo stesso dato naturale. Deve in pratica, per entrare nella vita del figlio, “essere pensato”.

Risulterà utile a questo punto ricordare come l’idea romana di pater familias presenta il potere del padre indipendente dalla sua paternità reale. Pater familias appellatur qui in domo dominium habet; recteque hoc nomine appellatur quamvis filium non habeat. Il Padre è padre anche quando non ha figli: questo è il pensiero di padre di cui stiamo parlando.

 

 

PADRE MAESTRO

 

Un uomo sogna che il padre gli dice “Impara da me che ti insegno bene”. Qui il padre non si pone come “fonte”, ovvero come soggetto che lascia libero il figlio di servirsi o meno del suo “contributo”, perché malauguratamente vuole mostrarsi a tutti i costi nella sua potenza, forzando la mano al figlio nel suo ruolo di padre (“ti insegno bene”). Siamo qui in presenza di un padre ostentatore. Di quell’individuo che, perchè debole, mette in piazza i propri attributi, esibendoli al giudizio del figlio, che non può che coglierne che la meschinità.

Il padre ostentatore è il padre della impotenza, almeno della impotenza a lasciare capire il proprio limite (come abbiamo avuto modo di vedere in precedenza), mentre il padre maestro è colui che non mette in mostra il proprio sapere e la propria esperienza.

Di un padre ostentatore al figlio che gliene viene? Di un padre che “passa attraverso” gli altri per manifestare la sua misera potenza? Di questo tipo di padri i figli se ne accorgono molto precocemente e molto precocemente (nonché giustamente) trinciano giudizi atroci.

Ho sentito per qualche anno un figlio parlare del padre “pirgopolinice”, uno cioè che si vantava di conquistare donne e città, convinto anche di quello che diceva. Il padre ostentava, non insegnava niente. E il figlio purtroppo aveva “imparato” che le donne si conquistano come le città, o si comprano come le automobili, e dunque sperimentava una dolorosa inibizione nei confronti del sesso femminile che vedeva “conquistabile” dal padre ma “impossibile” per lui. Quando finalmente il figlio si svegliò e smascherò la menzogna paterna, riuscì ad avere una sua donna e una sua famiglia e, giustamente a mandare a qual paese il padre che per tanto tempo lo aveva ingannato.

Molti figli, anzi la maggior parte, per fortuna, non perdonano questo tipo di peccati paterni e, onestamente, non mi sento di redarguirli.

Se il padre è maestro deve sapere allora stare in cattedra, deve però sapere anche tacere gli affari propri ( vedi la ostentazione) di fronte ai propri figli-alunni. Sappiamo tutti quanto fastidio dà l’insegnante che “si confessa” di fronte ai propri allievi. Confessa le proprie vittorie (sic!) ma soprattutto le proprie vittorie di Pirro.

Quanta meschinità di certi insegnanti “pirgopolinici” di fronte agli alunni, quanto patetismo, quanto fiato andato a vuoto. Ma sulle vicende della scuola torneremo più avanti.

Il padre è rappresentante della autorità che pratica con la propria autorevolezza: infantilismi e narcisismi difficilmente vengono perdonati dai figli.

Situazione inversa invece questa, il padre si presenta come giusto maestro: un figlio sogna il proprio padre mentre gli dice: “Si fa così, amen, così sia!”.

E’ questo il padre della soluzione, padre dall’idea geniale il quale “si tira fuori dal problema”, dice amen, non ostenta davanti al figlio la propria muscolatura, non è il padre che per forza vuole trasmettere al figlio il proprio sapere come il padre precedente che affermava: “Impara da me che ti insegno bene”, il “pirgopolinice”.

Questo secondo padre è come se dicesse “Se vuoi fai così”, non “Devi per forza fare così”. Sappiamo infatti che le soluzioni non si trasmettono. Come il figlio si deve inventare il padre, allo stesso modo si deve inventare le soluzioni.

E poi di che soluzioni stiamo parlando? Forse che un padre mette nel portafoglio del figlio un “vademecum” per tutte le evenienze? Un vademecum che gli risolva tutte le questioni che hanno per oggetto la soddisfazione?

Quando mai. Il buon padre è quello che inizia ogni frase rivolta al figlio con il preambolo…”se vuoi” (per i latini “si licet”) se ti garba, non se garba a me, che del fatto di garbarti non sono affatto sicuro, anzi. E se ti garba poi te ne accorgerai nel tuo futuro, non adesso. Il padre è chiamato ad avere la vista lunga, non lasciarsi ingannare dai risultati relazionali provvisori del presente.

L’incontro tra padre e figlio è “iniziante” per natura, fornisce cioè l’avvio a due che lo vogliono. Ma se solo uno dei due non lo vuole non se ne fa niente.

Il padre esiste solo in quanto meta dell’incontro, condizione per il lavoro del figlio nonché rappresentante di un soggetto al quale piace quello che (io figlio) faccio.

E questo è un pensiero forte: il pensiero che accompagnerà il figlio, specie nei momenti dello smarrimento e della sfiducia in sé. Il pensiero che recita che da qualche parte del mondo qualcuno pensa a lui e pensa bene a lui e pensa che lui stia facendo bene.

Attenzione, questo non è un fatto di realtà, non è un voto di un esame, è un pensiero tutto da dimostrare ma che il figlio non può negarsi: “da qualche parte…. mio padre pensa a me e gli piace quello che faccio, per quanto limitato possa essere”.

Padre maestro di vita in quanto pensa a me, figlio, nelle esperienze (necessità, dolori, soddisfazioni, ansie, etc.) della mia vita. E la questione più volte vista della legge di soddisfazione: per farla funzionare io devo pensare che a qualcuno piace quello che io sto facendo.

Sant’Agostino deve avere avuto dei genitori che… non sapevano, non avevano… conoscenza, ovvero che non gli hanno, a detta sua, fatto intendere questa regola: “A qualcuno piace che tu…”. Scrive infatti nelle sue Confessioni: “… manifestazioni corrispondenti ai miei voleri, poche e insufficienti, quali poteva, per nulla conformi alla realtà. Che se non mi si ubbidiva o per incomprensione o per evitare il mio danno, stizzito dal non vedermi sottoposti i più grandi, nè servo chi era libero, me ne vendicavo con i pianti. L’esperienza poi mi insegnò che tale era la natura dei bambini; e che non diversa fosse la mia me lo insegnarono a loro insaputa i bambini stessi meglio che non coloro che mi allevarono e lo sapevano”.

Agostino ha imparato dai suoi coetanei, dai suoi compagni di gioco, si potrebbe dire dai suoi fratelli, non dal padre (e anche questo non è un male assoluto). Il piacere, la strada per raggiungerlo, non glielo hanno indicato i propri genitori, e Agostino, velatamente, li accusa di questo.

Padre assente dunque. Ascoltando figli che vengono da me (figli maschi in questo caso) ho incontrato nel loro racconto padri ondivaghi, padri vissuti con vergogna, padri offensori del libero pensiero del figlio, padri mediocri che hanno fatto bandiera della loro mediocrità, addirittura padri dell’odio e dell’invidia verso il figlio, padri psicotici trasmettitori di psicosi, padri morti realmente e padri “morti” ancora da giovani, padri “mangiati” dalla madre, padri in perenne concorrenza con il figlio, padri castigatori, etc.

Ma questo elenco non sarebbe completo se non dicessi che questi padri hanno avuto dei figli che hanno “accettato(?)” le loro patologie. Non saprei ora distinguere la percentuale di “accettazione”. Ma sappiamo purtroppo che non tutti noi figli, anzi, pochi di noi hanno la possibilità, la forza, il coraggio, l’intelligenza, di emanciparsi e superare la patologia paterna.

Chi è figlio allora? E’ uno che “segue”, che si difende, che accetta, che si passivizza, che si ribella, che non chiede scusa, che accusa, etc?, Forse tutte questa posizioni assieme.

Il figlio è dono nel senso del merito e della responsabilità. E si dona a chi è capace di governare il dono. Questo nessuno lo sa prima, né il padre né la madre che ricevono il dono. E’ difficile anche che qualcuno lo sappia dopo (padre o figlio, o madre). Il dono davvero sta nel detto del cavallo, non gli si guarda in bocca, ma si lavora tuttavia, con costanza e anche apprensione, per fare del dono un bene.

E così facciamo anche il nostro (bene) di padri e madri: quando vediamo bene gli altri (in questo caso i nostri figli) vediamo bene anche noi stessi. Dovrebbe essere questa una regola cardine nella relazione figlio padre e padre figlio: più io sono soddisfatto di me e meglio vedo l’altro nella sua soddisfazione e anche nella sua difficoltà.

Se noi “pensiamo” l’altro “bene” siamo facilitati nel cogliere bene anche noi stessi. Per questo ha grande importanza l’insegnamento al figlio: “Datti da fare” per vedere il più favorevolmente che puoi il mondo che ti circonda. Pensiero positivo.

Il buon padre maestro è anche colui che si lascia insegnare la strada della soddisfazione dal proprio figlio.

 

 

PENSIERO DI FIGLIO E’ PENSIERO DI LAVORO


Un giovane uomo mi racconta questo sogno: “Sono in una nave dove lavoro come mozzo ( e sappiamo cosa significhi “mozzo” in una nave, ovvero colui che soddisfa i “desideri” della ciurma) e tutta la ciurma mi dileggia per il mio ruolo ma io mi sento difeso dal capitano che mi fa capire che non devo prestare tanto interesse alle voci dei marinai, quanto agli ordini suoi, che sono ordini finalizzati “al mio bene”, al bene stesso della ciurma e al bene generale della nave. Alla fine del sogno il capitano mi abbraccia, ma io non sono del tutto sicuro delle…sue intenzioni: il capitano non è ‘pulito’ con me”.

Lo strato omosessuale permea tutto il sogno sia in modo primario (il capitano-padre) sia in modo secondario (la ciurma, ovvero il sesso esplicito). Il sogno in sé e per sé è truculento ma presenta una indicazione interessante. Il capitano-padre indica al mozzo la strada per la sua “emancipazione”, che appunto è il lavoro (anche se è l’obbedire ai suoi ordini), anche se inteso come “ordine superiore”. Evidentemente l’ordine non è ancora “libero”, risente della marca “padronale”, passivizzante, dunque omosessuale del padre-capitano.

Questo ragazzo effettivamente aveva bisogno di un ordine superiore, aveva nella sua vita bisogno di qualcuno che gli indicasse la regola e lo tirasse fuori dalla promiscuità relazionale e sessuale con il resto della ciurma, con il resto dei suoi fantasmi molto più legati alla apatia e alla noia che non alla questione passivo-omosessuale. Il suo lavoro è ancora in corso.

Un altro giovane ragazzo, laureando in architettura, dopo una lunga, e sofferta elaborazione del lutto per la morte del padre, un giorno mi dice: “Mi sono accorto, in fin dei conti, che mio padre mi ha lasciato “la cultura del lavoro”. Io lo ho invitato a sviluppare il concetto e lui ha risposto nel senso che suo padre non gli ha lasciato “il castigo” di dover lavorare al posto suo perché lui era morto (avevano una ditta in comune), bensì la libertà di farsi il suo futuro imparando da un “maestro” che aveva lavorato tutta la vita, pur per una brevissima vita, pur lasciando conti in sospeso e tratte da pagare.

Questo giovane uomo ha evidentemente pensato a se stesso, dopo avere pensato per un sacco di tempo alla morte del padre e a tutti i sospesi che egli sentiva avere su se stesso. Da orfano era diventato figlio.

Il padre, nei suoi pensieri, lo aveva “invitato” a lavorare e non “costretto”: differenza che ti cambia la vita. L’invito è per sé, la costrizione è per altri, e i conti non torneranno mai.

In questa accezione il padre (sempre nel pensiero del figlio) gli ha dato un “ordine”, opposto di “comando”: per stare bene al mondo ed essere produttivi è necessario mettersi in fila: la differenza tra numeri cardinali e ordinali: primo, secondo, terzo, e se a me, figlio, capita il decimo posto, dal decimo posto devo cominciare a muovermi.

Il saper stare al mondo per il figlio, il suo mettersi in fila come tutti gli altri, il suo sudore per farlo, dovrebbe divenire il suo “pensiero di vita” (gioia o tristezza che sia). Ciò significa anche “penso naturalmente al mio essere sano”, “penso alla mia normalità”.

Il figlio malato infatti è colui che rifiuta il pensiero che qualcuno di sano pensi bene a lui, e questo pensiero malato, funziona a partire dal padre.

Il figlio sano invece, comincia a funzionare dal pensare che il proprio padre pensa bene a lui. Il figlio malato, in questa logica del pensiero del lavoro, è colui che non lavora affatto, né di muscoli né di cervice, non suda e vive in qualche modo a rimorchio dell’altro, giustificando continuamente la propria stasi con vaghi pensieri di “difficoltà congenite”, del tipo: “Non sono fatto per lavorare” (a me è capitato di sentire anche questa espressione!).

Ancora mi è capitato di seguire, per molti anni, un ragazzo, laureato in medicina, che di se stesso aveva un pensiero “delicato”, ovvero lui si pensava delicato, fragile, non forzabile, da trattarsi con i guanti, un pensiero che comunemente ed eufemisticamente potremmo dire di “eccessiva sensibilità”.

In altre occasioni si definiva “mendicante affettivo” perché non riusciva a essere se stesso, spontaneo negli affetti e nelle amicizie perché temeva che in questo modo l’altra/o si sarebbe offesa/o e lo avrebbe lasciato in tronco. E tutto ciò derivante dalla sua relazione con un padre che lui pensava possente nei rapporti con la moglie e poco incline a tenere dentro di sé pensieri e giudizi. Da qui il suo quasi quotidiano configgere con lui.

Ma chi è quell’uomo che pensa di essere “troppo sensibile”? Chi pensa di non essere adatto alle domande del mondo (che sono atroci) mentre gli altri si adattano benissimo alle stesse domande. Chi è che vede in se stesso un soprammobile di cristallo che bisogna stare attenti a spolverare?

Questo giovane medico, in parole povere, “se la tirava”, immettendo scuse e prove a fortiori per cui la sua “psiche” (visto che voleva iscriversi alla specialità di Psichiatria) doveva essere stata danneggiata dio sa da quale trauma, e questa era la giustificazione che lui dava della sua eccessiva “sensibilità”.

Alla resa dei conti non esisteva trauma, non esisteva “deficit intellettivo” legato al trauma. Esisteva solo una imperizia, una svogliatezza, una poca voglia di lavorare, alla quale questo giovane dava una giustificazione “scientifica” (da medico): “quella notte, quando io preparavo l’orale per la discussione di laurea, ho avuto un mal di testa così forte che mi ha compromesso il cervello. Da allora, tutte le mie capacità intellettive sono state compromesse”. Classico esempio della costruzione di una teoria patologica. Patologica in quanto “contro” la cultura del lavoro e incline alla posizione passiva.

Una costruzione che per certi aspetti potrebbe essere delirante, però questo ragazzo si è sempre mantenuto nell’ area della nevrosi, e questo lo ha salvato. Lo ha salvato il fatto che la “ricerca” di un lavoro è stato ed è tutt’ora una pratica di vita, anche se lui insiste a dire che è troppo ‘sensibile’ per lavorare. Il lavoro non è ancora arrivato, ma la “ricerca”, a tutt’oggi, continua.

Questo giovane medico per tratti della terapia è stato oppositivo, polemico con il padre e con l’autorità, schivo dei compagni, ribelle agli “insegnamenti” religiosi: alla fin fine voleva sempre avere ragione lui, l’ultima parola doveva essere la sua. Il tratto narcisistico era chiaro e la “remissione” dei suoi peccati diveniva una faccenda ardua.

La cosiddetta “ferita narcisistica” veniva gestita con lucidità e acredine nei confronti del mondo, a partire dal padre, con il quale il contrasto non aveva limiti di campo. Proprio questo “sconfinare” nelle regole del gioco, della relazione con il padre, mi hanno spinto, ricordo, a fare un intervento diretto: gli ho chiesto di fare del volontariato. Sapendolo impossibilitato a fare anche questo, il giovane medico si è dichiarato arreso alla evidenza dei fatti, ha riconosciuto a se stesso, non solo a parole, la sua dipendenza dalla famiglia, la sua difficoltà a relazionarsi anche conflittualmente con gli altri, la assenza di relazioni sessuali. Ha riconosciuto in pratica che la sua teoria patologica se la era costruita lui.

Il volere aver ragione, sempre ragione, è l’impossibilità della relazione sessuale e della relazione d’amore. Voler avere ragione è il non superamento della ferita narcisistica, non volere sudare (lavorare e amare), non volere confrontarsi, non volere mettersi in gioco, non volere “fare brutta figura”.

Il volere avere sempre ragione è sempre un volere… senza soddisfazione, un volere narcisistico di rispecchiamento di un falso potere nello specchio dalla propria camera da letto. Dove nessuno, ovviamente, ha titolo per entrare.

I figli che vogliono avere sempre ragione sono indisponenti e indisposti per il proprio padre e per il mondo intero. Il figlio indisponente è anche un figlio insipiente.

Indisponente è da un lato il figlio che vuole avere sempre l’ultima parola, anche a scapito del proprio successo, e in questo modo diventa insipiente, ovvero uno che poi non “vuole sapere”, non vuole conoscere, non vuole confrontrarsi con il mondo: due esempi.

Il primo è un ragazzo che, in qualche modo, si “allea” con la “offesa” del padre. Il padre infatti gli diceva che non avrebbe combinato mai niente nella vita (forse per dargli uno spintone a darsi da fare), lui invece, con modalità clinicamente perverse, dava ragione al padre facendosi “bocciare” a scuola un anno sì e un anno no. Questo ragazzo praticamente “immolava” se stesso all’altare della offesa paterna, proprio del tipo “muoia Sansone e tutti i Filistei”. Di se stesso alla fine non gli importava più niente. Smise la terapia ed io letteralmente non ne seppi più niente.

Il secondo esempio di indisponenza/insipienza è rinvenibile in questo sogno di un ragazzo male in arnese con la scuola e che aveva trovato “rifugio” nella ditta paterna, dove “lavorava” ma chiaramente non produceva né per se stesso né per la ditta.

Fa questo sogno. Sono bambino-ragazzino, in chiesa leggo le preghiere della Messa. Alla fine, piangendo, chiedo ai fedeli: “Pregate per me”. In quel momento nota tra i banchi il padre che, con un sorriso sarcastico, dice: “Sei all’ultima spiaggia”.

Anche qui la lettura del sogno non ha bisogno di grandi conoscenze psicologiche: questo ragazzo “elemosina” letteralmente il lavoro e la soddisfazione, senza fare il minimo sforzo affinché la soddisfazione “funzioni” per se stesso (infatti si sforza di chiedere solo preghiere). Il padre si accorge di questo stratagemma e lo sbugiarda in pubblico. Anche di questo ragazzo, dopo qualche tempo di analisi, non ho più saputo niente.

La regola, allora, per il figlio, è il lavoro, il non avere paura di lavorare (cioè di dare soddisfazione all’altro, dandola a se stesso). Ho notato come molte persone, pur di non “dare soddisfazione, di non fare letteralmente “contento l’altro” (a partire dal padre ) rinunciano alla propria stessa soddisfazione.

Un giovane uomo mi diceva che secondo lui gli altri che entravano con lui in contatto per dare o avere soddisfazione, alla fin fine lo volevano fregare, ovvero dietro la soddisfazione c’era sempre una trappola e dunque lui non si fidava di nessuno, tantomeno di se stesso. A partire da qui per arrivare alle forme più deleterie di dipendenza, capiamo benissimo come il passo sia estremamente breve.

Dipendenza sostanzialmente non è dipendenza da una esternità, da un oggetto, dalla “roba”, dalla assunzione di elementi esterni. La dipendenza è l’incapacità di “restare senza”, restare senza un piacere. Dipendenza è volere il piacere garantito, il “sì garantito” dal padre che dovrebbe sempre essere disposto a colmare la mancanza. Non a caso i “dipendenti” non chiedono ma pretendono, non lavorano ma elemosinano o rubano, perché in loro è saltata o non si è messa mai in moto la regola del merito, che, come abbiamo visto, è una regola sostanzialmente paterna.

Il padre in questo sogno funziona da agente legale: pregare infatti è sì “vocare” l’altro, chiederne l’ausilio, ma non restando con le mani in mano. L’ausilio non è gratuito, bisogna guadagnarlo non solo con le preghiere. Allora il padre rimanda il figlio al lavoro, proprio del tipo: “… vai a lavorare!” se vuoi ottenere il beneficio dell’altro. Altrimenti sei proprio in un cul de sac.

Per cui la norma fondamentale è riassumibile nella formula: essere uomini è essere figli che lavorano.

 

GUIDO SAVIO