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LA CONTRADDIZIONE

La contraddizione

La vita si struttura sul fatto che dentro di noi c’è contraddizione, e superamento della contraddizione, ritorno della contraddizione, convivenza di contraddizione e superamento…e così via.

Cito prima Epicuro e dopo Giorgio Gaber. Il primo: “Satis magnum alter alteri theatrum sumus”. Il secondo: “Chi ci dice che questo fa bene e questo fa male?”.

Il primo: la contraddizione esterna verso l’altro fino al nascondimento (se non finzione teatrale).

Il secondo: la contraddizione interna dentro noi stessi che ci chiediamo in continuazione sul bene e sul male e quella che mai possa essere la divisione tra le due istanze, e se noi sappiamo capirla e praticarla.

Noi siamo incoerenti e ci aspettiamo da noi e dagli altri coerenza, affidabilità, prevedibilità. Noi dentro di noi siamo divisi tra ciò che vogliamo e ciò che poi riusciamo a fare: la forbice del Volere/Potere è sempre più divaricata, specie in questo Tempo difficile. Parliamo di bene per gli altri ma spesso viene fuori tutto il nostro egoismo. E continuiamo a chiederci: “Dove sta il Bene e dove sta il Male?” non sapendo che la vera domanda è “Chi sono Io nel Bene e chi sono Io nel Male?”. La stessa persona?

 

Accade che siamo insinceri, ma non vogliamo riconoscere il peccato. Il peccato è sempre dell’altro. Ma vorremmo essere uomini e donne “tutti d’un pezzo”, soprattutto nelle nostre azioni.

Capito lo abbiamo capito: l’uomo è ciò che fa, la sua aretè è il bene che fa. E abbiamo anche capito che mai come nel nostro Tempo le nostre parole hanno lo stesso peso dei fatti.

Scrive Ricoeur in Finitudine e colpa. L’uomo fallibile che “l’uomo è destinato alla razionalità illimitata, alla totalità e alla beatitudine nella stessa misura in cui è limitato alla prospettiva, in balìa della morte, legato al desiderio”. E’ questo il nostro paradosso: la libertà di fare il Bene e il Male (conoscendoli e anche non conoscendoli). E’ il paradosso evangelico: “Chi vuol salvare la propria anima la perderà. Chi è disposto a perdere la propria anima la salverà.” (Lc. 9,24).

 

Ritengo che una delle più grandi ricchezze che noi possediamo sia proprio la nostra contraddizione (ma soprattutto la capacità di accettarla e conviverci e soprattutto accettare quella degli altri); ricchezza a patto che noi la consideriamo tale. Da ricchezza essa si trasformerebbe in castigo se noi sulla contraddizione nostra ci fissiamo, cioè non muoviamo più un passo in quanto la consideriamo indegna di noi, la avvertiamo come un corpo estraneo di cui liberarci. Peccato di superbia.

Certo. Aspettiamo da noi e dagli altri coerenza, anzi a volte questa più che una aspettativa, diviene pretesa, diviene una pretesa di fedeltà. Fedeltà che per noi significa: “Devi essere coerente con me, io devo sempre sapere dove trovarti, perché se tu mi deludi in questo, scardini la mia capacità di rapportarmi con te. Io non mi ritrovo e non ti ritrovo”.

E scrive Simon Weil nei suoi Quaderni: “Ogni affermazione vera è un errore se non è pensata contemporaneamente al suo contrario, e non la si può pensare contemporaneamente”. Le nostre frasi vivono di antinomia. Come pure il nostro Spirito.

 

Scrive Levinas in Il Tempo e l’Altro: “Antinomia che oppone il bisogno di salvarsi a quello di appagarsi”.

Certo. Noi diciamo all’altro: “Sii quello che sei”. Ma nel momento in cui ravvisiamo delle incoerenze in lui siamo pronti a puntare il dito accusatore. Ma noi siamo contraddittori e divisi anche dentro noi stessi. Il nostro volere non corrisponde sempre al nostro agire. Anzi, spesso la classica forbice Volere/ Potere si divarica tanto più quanto più noi ci ostiniamo a voler essere… granitici nella nostra “moralità”. Ricordo sempre che Nietzsche dice che l’uomo si è dato regole morali troppo rigide da rispettare. Vogliamo percorrere una certa strada e invece ci dirigiamo verso un’altra. Io ritengo che questo sia il destino di tutti noi. Ma destino infausto per chi non lo accetta, per chi vuol farla sempre giusta, per chi vuole azzeccare tutte le proprie scelte, accarezzare il sogno del Tutto e non accetta la propria debolezza, foriera di errori.

Noi dobbiamo accettare che dentro di noi c’è un magma, mobile, non sempre comprensibile, anzi, spesso portatore di confusione.

Paolo dalla Lettera ai Romani: “Non faccio il bene che voglio ma faccio il male che non voglio. Questo faccio.

Confesso che mi piace molto questa frase in quanto io mi ci riconosco perfettamente. Ma sono anche convinto che se noi tutti accettiamo questo pensiero allora avremo accesso alla capacità sanatoria e vivifica che viene fuori da questa frase, quella di metterci veramente a nudo. Il corpo nudo, il corpo che Lacan chiama le corps morcelè, il corpo frammentato, di cui ogni frammento è il corpo intero: l’intero corpo nudo.

Dividerei la frase in due parti: la prima (“Non faccio il bene che voglio”), tutto sommato scontata che afferma che… tra il dire e il fare, tra il volere e il fare… c’è di mezzo il mare. E non occorre spendere ulteriori parole. La seconda parte invece (“Faccio il male che non voglio”) è un pochino più complessa in quanto, per l’appunto, mette a nudo tutta la mia incoerenza, tutta la mia contraddittorietà, se vogliamo anche tutta la mia inaffidabilità. Mette a nudo il mio affanno nel non essere me.

 

Bene. Ma se l’Uomo fosse fatto solo di contraddizione si disintegrerebbe e disintegrerebbe alche gli altri.

E’ che se noi vivessimo esclusivamente la condizione interna alla tela del nostro essere, non ci troveremmo più, potremmo perdere la possibilità di definirci Io. La forza centrifuga agirebbe in modo pernicioso. Forse esploderemmo o imploderemmo. Una tela necessita di una cornice. La contraddizione necessità di una entità che la contenga. L’Io diviso di Laing sarebbe troppo diviso. Ci vedremmo specchiati in mille specchi senza riconoscerci affatto. Il confine, il limite sono necessari.

Non avremmo in pratica la forza di sopportare questa divisione interna (se la contraddizione interna prevalesse). Se il nostro Volere sta da una parte e il Potere sta dall’altra parte noi saremmo tristemente destinati alla malattia.

“La solitudine è l’infermiera dell’anima” scrive un po’ elementare Madame De Lambert citata da Leopardi.

La solitudine come fonte della soddisfazione che l’uomo ha nel pensarsi nella sua unicità e nella sua originalità. Solitudine non come perdita ma come atto del trovarsi. Dentro appunto la propria contraddittorietà contenuta dalla cornice del proprio Io. Senza che l’altro “fuori” dalla porta non manchi mai.

Gesù infatti dice: “Vi lascio soli, ma non orfani”. Ovvero l’altro c’è sempre, anche se noi siamo lì allo specchio che guardiamo le nostre rughe! Noi, soli, a tu per tu. Ma mai orfani dell’altro. Anche se l’altro, fino in fondo, non è per noi, non è con noi, e ci può fare vivere anche il dolore della solitudine, come mi sembra esca dai versi di W. Szimborska: “Puoi conoscermi, però mai fino in fondo./ Con tutta la mia superficie mi rivolgo a te;/ma tutto il mio interno è girato altrove”.

Soli quando ci accorgiamo che le persone che abbiamo attorno noi le possiamo penetrare solo in parte nel loro corpo e nella loro anima. Quando ci accorgiamo che le nostre parole entrano fino ad un certo punto nel capirci dell’altro, ecco, allora siamo soli.

Noi, anche lontani dalla relazione con l’altro, possiamo avere quella forza, quella vitalità che dopo ci permette di rilanciarci verso l’altro, di darci più nuovi, più ricchi, dopo il lavoro di esserci trovati dentro.

 

Domanda. Ma allora da che cosa sono tenute assieme le parti della tela alle parti della cornice? Che cosa incolla la nostra contraddizione al nostro limite? Le umilissime graffette. Eccolo lì il pensiero. Il pensiero sono le graffette che tengono unita la cornice attorno alla nostra contraddizione interna. Il pensiero tiene unite le mie posizioni contraddittorie, nel loro essere bene e nel loro essere male. Mi accorgo adesso, dicendo queste cose che sto tentando di definire l’Io, chi siamo noi. Ecco, per me è importante capire che il pensiero è dire: “è così, metto la parola fine, ci do un taglio” e consento l’avvenire di quello che deve avvenire. Dire amen è la stessa cosa… non vuol dire… “morta qui”, anzi il contrario, significa… da qui in avanti. Scrive Natoli in Stare al mondo: “Amen è la parola decisiva dell’ebreo e del cristiano. In ebraico amen significa “dimostrarsi saldo”, “avere consistenza. Il Dio dell’amen è tale: in lui si ha fede perché in lui ci si sente sicuri, a lui si dice “sì”, appunto, amen”. Questa questione dell’amen la riprenderemo in più di una occasione e riporteremo ancora questa citazione di Natoli.

Il pensiero è un sigillo, un sigillo affermativo. Al momento mi basta che si intenda come il Padre è il Padre del “si”, ovvero dell’amen, purchè il Figlio lo voglia attraverso il lavoro del proprio pensiero.

Ed è giunto il momento di tornare a Paolo, sulla frase citata ma che abbiamo lasciato in sospeso. Ripeto la frase: “Non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio, questo faccio”. Ho scelto il commento alla Lettera ai Romani (da cui è tratta la frase) di Karl Barth, teologo protestante, commento che quando è uscito nel 1919, ha suscitato non poche polemiche. Si chiede Barth ragionando sulla contraddizione: “Forse una sola delle mie parole è la parola che cerco?”. Di sicuro no. Noi andiamo per approssimazione. Di una parola che abbiamo scelto forse ne abbiamo scartate magari cento che avrebbero potuto dire meglio chi noi siamo, che cosa noi vogliamo. Non sappiamo. Continua Barth: “La parola che avrei dovuto dire dal fondo della mia disdetta o della mia speranza? Posso parlare in modo tale che la mia parola non debba essere negata da quella successiva? “. Ecco, qui capiamo meglio la questione della contraddizione. Io, come tutti voi, spero, a volte dico dei concetti che poi smentisco, che poi rinnego, che poi non vedo più come li vedevo prima, che poi molto semplicemente e umanamente cambio. “O le mie azioni sarebbero in una posizione migliore? La mia infedeltà sulle grandi cose dovrebbe compensare la mia fedeltà sulle piccole cose? Accade mai che un pensatore, un artista, un uomo politico trovi in quello che ha fatto, ritrovi veramente se stesso?”.

 

GUIDO SAVIO

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