-Email -Email   STAMPA-Stampa 

FIGLIO E SESSO (PASSANDO PER IL PENSIERO DI PADRE)

Figlio è un pensiero. Pensiero libero, in quanto altre forme di pensiero non esistono. Figlio è il prodotto, ottenuto con il fare delle mani, di quel soggetto che sta sveglio, che veglia, che si dà da fare ma soprattutto che accetta la finitezza del proprio posto, e che nello stesso tempo ne vede la potenzialità (cioè sente di avere il potere di…).

Portatore di desiderio, insomma. Il figlio ha nella propria testa, nel proprio cuore e nelle proprie gambe la parola “scopo”, senza essere un forzato della programmazione. In quanto soggetto dello scopo il figlio è il soggetto della salute. Colui che ha pensiero di meritarsela (il diritto di avere diritto), come di meritarsi il piacere e la salvezza. Il figlio è il soggetto dell’intraprendenza. Quello che si muove per primo verso l’avvenire e quello che ad esso è più disponibile. È il soggetto che non ci pensa sopra più di tanto in quanto ha “sentimento” di futuro, non programmazione di futuro. Il suo viaggiare è il passaggio continuo dal presente al futuro inteso come veglia. Accettazione del fine come accettazione della fine: questo è figlio.

“Tutto mi è stato dato dal Padre mio. Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt. 8, 27).

Queste parole di Cristo indicano come la “questione” del Figlio sia la stessa “questione” del Padre: fare e agire, il passaggio tra presente e futuro: chi è l’uno… l’altro è. E ciò non nell’esperienza reale, ma nella favorevolezza del pensiero. Il pensiero favorevole, ovvero il pensiero di qualcuno che, sempre, anche in questo momento, ha piacere che io provi piacere. Pensiero di ricchezza, di amore, di eredità e di perdono. Nell’essere uno passato attraverso la nascita dell’altro. Essendo il Padre passato attraverso la nascita del Figlio.

Se io mi penso figlio, mi penso come “colui che inizia”. Il figlio è tale in quanto iniziatore, in quanto portatore di un pensiero di novità, anche quando il viaggio fosse già cominciato, anche strada facendo. Sempre pronto a cominciare qualcosa. Il nostro amore per noi stessi è un pensiero di “capacità”, la capacità di essere capaci di iniziare qualcosa di nuovo, anche in corso d’opera. Ma figlio è anche colui che sa produrre un pensiero molto pratico: che se ci va male da una parte… da un’altra ci andrà bene. Il Figlio è allora l’artefice della Speranza, in quanto sveglio nella sua esperienza di iniziatore e di continuatore (non soltanto dell’esperienza paterna), soprattutto nel momento in cui l’opera diviene difficile o non sortisce soddisfazione. Figlio in questo senso è produttore di alternativa laddove la soddisfazione al momento non è ottenibile. Figlio in quanto sa amarsi.

L’amore di noi stessi, l’“egoismo maturo”, vive nel pensiero che c’è sempre la possibilità di ri-cominciare. Qui sta l’umanità dell’uomo e la forza del figlio: posso iniziare in quanto ho saputo dimostrare che già ho iniziato una volta, che sono stato iniziato una volta. Figlio è quel “tipo” che, per quanto esauribili, si dà sempre diritto a ulteriori opportunità.

Possiamo dire che noi figli abbiamo questo salvifico pensiero nel momento in cui “abbiamo il pensiero di essere contenuti nella volontà di un Padre, un padre che vuole la nostra soddisfazione e in quanto tale ci libera dalla malattia della inibizione.

Pensarci figli non ha assolutamente nulla a che fare con il pensiero di avere uno o cinque padri reali. Si tratta solo di un pensiero produttivo, quello di essere contenuto nella “volontà” di un altro (il Padre) che vuole il nostro bene, e questo altro svolge una funzione paterna nel senso che: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo vuol rivelare”.

Figlio è pensiero in riferimento al Padre che dice: “Porta avanti tu il mio desiderio verso di te perché questa è la mia volontà su di te”; e qui Padre e Figlio si ritrovano nella reciprocità del loro pensiero di desiderio. Il pensiero di figlio significa che esiste un pensiero che c’è qualcuno (non uno qualunque) che prova piacere per il piacere che provo io, e dolore per il dolore. Piacere per il piacere dell’altro. Dolore per il dolore dell’altro. Questa è la legge del piacere (anche quando comprende il dolore). La legge del piacere è la legge che sorregge sia la condizione di lavoro, sia del senso della vita stessa.

Se non sono sorretto da tale legge è impensabile che io, da solo, inizi qualcosa. Io inizio qualcosa se ho un pensiero che questo qualche cosa possa piacere a me e all’altro (il Padre). Io inizio se ho il pensiero che ho “me” come compagno di lavoro. In questo senso io riconosco come sanzione che sono figlio di due (mio padre e mia madre) che sotto la legge dell’amore mi hanno messo al mondo perché io piacessi al mondo e perché il mondo mi piacesse. Un pensiero da figlio è… che qualcuno, in qualche momento della mia vita, sta lavorando per me in quanto il mio bene è il suo bene, in quanto il mio piacere è il suo piacere.

Figlio è sempre pronto a cominciare qualcosa. O qualcuno. Anche se stesso; il figlio infatti è l’iniziatore di se stesso. Inizio che non è una esperienza “una tantum” ma, se si vuole, una ripetizione, come abbiamo avuto modo di vedere, di una esperienza che i nostri genitori hanno meso in atto su di noi. Il nostro amore per noi stessi è il pensiero di essere sempre capaci di iniziare qualcosa di nuovo. Non tanto un’avventura, un’idea, un lavoro. Ma iniziare noi stessi, rilanciarsi ogni volta, alzarci in piedi, se è possibile, dopo ogni caduta: almeno il tentativo.

Iniziare non è “iniziazione” . Iniziazione è “mistero negativo” in quanto si vuol nascondere per forza quando non c’è niente da scoprire. Iniziare invece significa potenza. Pensiero di essere il più possibile “capaci” di “altro”. Ma badiamo bene che non si tratta di cercare il conforto di un’esperienza: questo altro può anche non esistere (e in realtà spesso si nasconde). Ma si tratta di un pensiero: cioè attività normativa che il soggetto decide per se stesso nel momento in cui si ama: mi amo in quanto qualcuno mi ama (senza che questo “qualcuno” esista necessariamente). Allora la mia capacità di “altro” sarà per me una fonte inesauribile. Pensiero. Io sono il mio pensiero, la mia “potenza” di pensare.

“Sono nato attraverso il piacere” non è una frase fatta, ma un dato esperienziale. Se non c’è il piacere… non ci si mette! Non si nasce nemmeno! E le esperienze di piacere di Uomo/Donna non si verificherebbero se prima non fosse stata sgombrata la strada dal pensiero: il mio piacere piace a qualcun altro, a partire dal Padre. Onora il Padre significa onorarlo attraverso il lavoro verso il piacere. Non verso l’obbligo o la colpa.

Essere figli equivale dunque ad un pensiero di crescita nel senso di fare ed essere fatti anche nel proprio diritto alla “passività” (l’essere perdonati). In quanto il pensiero di Padre è anche un pensiero che recita: “qualcuno lavora per me”, per cui la “passività” diviene sana: “Che l’altro faccia in vece mia” fidandomi io di lui, solo allora posso mettermi nel posto della passività. Eredità: se si toglie il pensiero di Padre resta l’eredità materiale, mentre l’eredità del Padre è il traghettare se stesso, oltre il senso di colpa, da parte del figlio, ponendosi egli davanti la questione della colpa reale (ovvero del limite e dell’errore), e nello stesso tempo offrendosi opportunità, offrendosi “potenza”.

Allora l’“Ubi bene, ibi patria” può benissimo trasformarsi in “Ubi bene, ibi pater”.

E il posto del Padre sappiamo che è il posto del sesso in quanto sancisce la differenza che, per l’appunto, prima di tutto è sessuale. La nostra Patria è una Patria di figli. Cioè di soggetti capaci di “concepire” il sesso come “strumento” della loro capacità tanto di unione quanto di separazione dall’altro.

E il sesso, quello che andiamo definendo come sesso (pensiero/divisione), viene ben prima dei rapporti sessuali proprio perché “si regola” sul corpo pulsionale e non sul corpo biologico. E pulsionale significa, freudianamente, “che sta a metà tra lo psichico e il somatico”. Ovvero desiderio. Noi siamo la nostra competenza a desiderare, il nostro “saperci fare” con il nostro stesso desiderio. Il sesso sta nel pensiero di esso. Bella e nello stesso tempo inquietante cartina di tornasole della fragilità umana sono queste riflessioni di Simone Weil sull’amare ed essere amata, sul desiderare ed essere desiderata:

“Amore. Vorrei che colui che amo mi ami. Ma se è interamente dedito a me, non esiste più. Io smetto di amarlo. Sazietà. E finché non è interamente dedito a me, non mi ama abbastanza. Oppure: io vorrei il suo bene. Ma quale bene? Quello che io mi raffiguro come il suo bene? Ma lui non lo vuole. Se invece è completamente docile non lo amo più”.

Simone Weil dimostra proprio come sia il pensiero di Padre che non funziona in queste sue pur umanissime riflessioni. Manca il concetto di separazione e di limite. Meglio, questi concetti vengono intesi solo razionalmente, ma evidentemente questo non basta per mettere a tacere l’angoscia della filosofa francese che vorrebbe il tutto dell’amore dell’altro e nello stesso tempo lo rifiuta. Quello che rifiuta in realtà è il sesso come sanzione della divisione dei due desideri. Il desiderio del tutto è il contrario del desiderio sessuale, che recita che alla soddisfazione (umana) ce ne manca sempre un pezzo.

Il Padre inizia questi discorsi proprio a partire dal discorso della divisione del desiderio (dei due desideri dei due che si amano). Ma divisione anche interna allo stesso desiderio. Per questo il sesso viene prima dei rapporti sessuali, in quanto divisione del desiderio stesso, ovvero “il mio desiderio non sarà mai sovrapponibile al tuo desiderio”. Se così fosse, ci sarebbe un solo sesso. Ma anche il mio desiderio non è univoco e chiaro dentro di me, è diviso anche là.

Un solo sesso, un solo desiderio: allora niente sesso. In quanto destino del desiderio è una parziale insoddisfazione: l’altro non mi soddisferà mai del tutto e qui sta la separazione sana, la divisione del desiderio.

“Ciò che hai ereditato dal padre… conquistalo” scrive Goethe nel suo Faust.

Il concetto di Padre si pone come “conciliatore” (“metaxy” di S. Weil) tra i sessi proprio perché ne pone la questione della possibilità (Cacciari) e della libertà nella loro pratica. Il Padre è conciliatore in quanto consente l’appuntamento, proprio perché è conoscitore dell’inizio e nello stesso tempo “indicatore” della speranza.

Il regime giuridico dell’“appuntamento” è un’ulteriore voce del concetto di Padre (Dio Padre, ad esempio, ci ama nel non intervenire, lasciandoci liberi, nelle nostre questioni di esseri umani). “L’amore – scrive ancora la Weil – è sul versante della non-azione, dell’impotenza. L’amore, che consiste nell’amare che qualcosa sia, nel non volere intervenire. Dio ci ama così; altrimenti cesseremmo immediatamente di esistere. Saremmo annientati. Acconsentire per amore a non essere più (ed è questo che dobbiamo fare) non significa annientamento, ma trasporto verticale nella realtà superiore dell’essere”.

Accedendo ad un linguaggio colloquiale potremmo intravedere un certo passaggio da Bambino a Figlio in questo scambio di battute tra Bambino e Padre. Domanda del Bambino: “Sono ancora privilegiato?”. Risposta del Padre: “Ce n’è un po’ per ciascuno”. E tale risposta è sempre una risposta paterna, e questo dimostra che il Padre è autonomo e funzionante prima ancora dell’Edipo, ovvero ancora prima della comparsa nella scena dell’attaccamento del bambino o della bambina nei confronti della madre e del successivo e sanatore intervento del Padre che rompe la patologia dell’attaccamento.

È patologico dissociare il pensiero d’amore e il pensiero di conoscenza in riferimento al Padre, ne andrebbe della formazione dell’intelligenza del figlio. Il connubio tra amore e conoscenza lo potremmo anche rinvenire nell’adagio “Chi sa, dorme”, nel senso che non esiste alcuna necessità di “dimostrare” la propria conoscenza in merito all’amore. L’amore è solo se è tenuto lontano dalla presunzione e dal presupposto. Il pensiero d’“amore presupposto” (cioè quello che mi sarebbe dovuto per forza) è un pensiero poco intelligente in quanto è antieconomico. Pensare che esiste da qualche parte un amore che mi è dovuto, di certo non mi fa lavorare. Mentre il lavoro accende la categoria del merito, e dunque del sesso. Intendere l’altro come “partnership”, socio in affari: quelli reciproci che solo l’amore rende possibili.

Il figlio pensa al Padre non come ad un “ente”, ma come ad una partnership. Il Padre come “ente” potrebbe anch’esso costituire una forma di elargizione, una forma di “amore garantito”, quello che non comprende domanda. Invece nella salute, per avere salute… “basta chiedere”, “basta lavorare”. Ma non lavorare per me (per il mio egoismo immaturo), bensì, per il tuo bene; il mio bene lo faccio passare attraverso di me, passando attraverso il mio concetto di Padre. È in questa espressione (“passare attraverso il Padre”) che si può vedere quella che Freud, ma non solo lui, ha visto come la cosiddetta uccisione del Padre, il parricidio. Oltrepassare il Padre per essere Figli, farlo morire per vivere.

Guido Savio

-Email -Email   STAMPA-Stampa