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OGNUNO PARLI PER SE’

OGNUNO PARLI PER SE’

IL PASSATO NON E’ UN DATO OGGETTIVO

Il passato non è un dato oggettivo, ma ha valore nella logica che noi riusciamo a farne un ponte percorribile per il futuro.

Se il sintomo ha (e non abbiamo dubbio di dubitarne) la sua radice nel passato, sta a noi creare un passaggio dentro un ambito percorribile come “cessazione della paura” che è la condizione fondamentale per cui il sintomo sta in piedi e fa male.

Non è che il sintomo vada combattuto perché, come afferma Freud, di tratta di una “formazione di compromesso”: il che significa che nella psicopatologia, se non ci fosse il sintomo, ci sarebbe l’angoscia.

Dunque il sintomo, anche se fa male, rappresenta per noi (fino ad un certo punto) un dato di salute (rispetto alla possibile angoscia).

Nella nostra vita noi viviamo due condizioni, se volessimo adottare una terminologia guerresca, due linee.

La prima linea è quella del presente, del fare, della produttività, del lavoro, dell’impegno, della relazione, del danaro, etc..

La seconda è quella del riposo, del tempo vuoto, del vedere un film, del leggere un libro, etc.;

ecco, è la seconda linea che regge la prima, a patto che io non finalizzi la seconda alla prima, ma la viva come “tempo libero”, forse quello che i latini chiamavano “otium”, per diversificarlo dalla prima che era il “negotium”.

E’ il tempo libero che mi offre l’energia per vivere il sintomo e per sapere trarre da esso il significato che esso ha. Quasi che la “seconda linea” avesse il compito di “celebrare” la vita, di dare ad essa senso ed importanza, di mandarla in una direzione determinata. Forse sto parlando del lavoro del pensiero che si sovrappone (o viene dopo, o di conseguenza) del lavoro dell’agire.

In fin dei conti il bene sommo è la vita, il suo mantenimento, è la “ragion di stato” del nostro convivere con il sintomo: conviviamo con il sintomo perché sappiamo che esiste un bene superiore che è dato dalla vita stessa: il sintomo non può fiaccarla. Per non fiaccare la vita dobbiamo sapere scendere dal gradino, dobbiamo saperci fermare, per avere soddisfazione, anche nel piano precedente, nel gradino inferiore rispetto a quello in cui la abbiamo provata prima. Dobbiamo saper perdere. Siamo capaci noi di retrocedere dalla prima, alla seconda, alla terza, alla quarta fila nel godere la nostra soddisfazione?

Se non sappiamo dare giusto senso al sintomo, no. Se al sintomo diamo il nome che ha, cioè “compromesso” per andare avanti, allora si.

PAZIENZA

Questo andare avanti ha a che fare con la solitudine. Di questa solitudine vedrei una condizione primaria, che è quella del soggetto abbandonato, e una secondaria, che è quella del soggetto amato che però non sa mettere a frutto la sua condizione di privilegio. “Amor” è lo stato che noi tutti cerchiamo, ma bisogna saperlo anche mettere a frutto.

Quando “necessario” e “voluto” si sposano, è la salute del fare e dell’anima perché è la stessa solitudine che va a sposarsi con l’altro, che appunto è tanto voluto quanto necessario.

Infatti nella vita è necessario avere pazienza e accettare quello che è il responso del Tempo e del Fato, anche se si tratta di aspettare il tempo del dolore. Infatti sia l’abitudine al dolore, sia il saper attendere il dolore, abbassa la soglia del dolore stesso.

La solitudine può essere il massimo dei dolori, perché lascia inevasa la domanda di “come occupare il tempo” senza altri fini per il tempo stesso. E’ il tempo non finalizzato che, se non è saputo gestire, provoca dolore. Infatti diventa il tempo della angoscia.

Anche se c’è da dire che i sentimenti che noi riusciamo ad esprimere nel tempo della nostra angoscia non muoiono mai.

E’ la sfumatura della parola che porta l’amore alla altezza che esso merita, che lo pone come fonte di soddisfazione e lo tiene lontano dalla angoscia. Chi ama infatti tende alla soddisfazione. Chi non sa amare prima o poi diventa un angosciato.

La soddisfazione infatti è la condizione della felicità della vita che non comprende né bisogno né dipendenza.

“Posso perdere” è la frase (e la condizione) del superamento della dipendenza. Infatti esiste una sola paura, quella di perdere, ed esiste una sola dipendenza, quella della paura: paura e dipendenza rimandano alla morte. In breve esiste una sola paura, quella di morire. Per questo con la dipendenza non si lotta, ma si cerca il lavoro di convivenza: noi uomini, come diceva Nietzsche, ci diamo regole troppo difficili da sopportare: dobbiamo imparare a convivere con la nostra mancanza, anche se questa si chiamasse “dipendenza”.

Resistere alla dipendenza è una perdita in partenza. Si perde meno se alla dipendenza ci si adatta e non la si enfatizza, visto che noi tutti umani siamo dipendenti da una realtà o da un’altra, da un pensiero o da un altro.

ADEGUARSI E FIDELIZZARE

Adeguarsi e “fidelizzare” sono le due strade che ci permettono la convivenza con la dipendenza. Fidelizzare vuol dire avere fiducia nella propria capacità di essere produttori di soddisfazione (e di saperne ricevere dall’altro). La logica della soddisfazione dice che si perde e si prende, dalla vita, nella vita, con alternanza che sta alla nostra intelligenza e alla Fortuna, stabilire.

Questa “fidelizzazione” è solo il pensiero che se io cado, cado in piedi, è il convincimento che non è un singolo avvenimento avverso che mi cambia la vita e che mi impedisce poi di riprodurre la stessa vita che mi è stata cambiata. Ci si demoralizza nel momento non si ha una immagine globale della nostra esistenza e la si sente “stretta” attorno a noi stessi.

Invece la nostra stessa vita ci trascende, in questa stessa vita: è l’altro che ci chiama.

Quindi il “combattere contro se stessi” (evidentemente le nostre parti “malate”) è una azione che esce dal senso e travalica nella vera violenza. Il vero violento è colui che non perdona se stesso e allora passa all’atto contro se stesso e contro l’altro.

Ma è anche vero che nella nostra vita l’altro pone troppi trattini, troppi paletti, troppe regole alle quali noi ci ribelliamo, perchè sono le stesse che noi imponiamo a noi stessi. E alle quali per primi ci ribelliamo.

Il punto è uscire dal punto.

La paranoia, ad esempio, è una bugia che uno racconta a se stesso, sapendo di “calcare” sulle cose della vita come se esse potessero offrire “garanzia”. Invece non esiste nessuna garanzia ma “fidelizzazione” che la soddisfazione da qualche parte mi arrivi, altrimenti… pazienza.

NON AVERE TROPPI PENSIERI

Il padre è quel soggetto che dice al figlio la seguente frase: “Arrangiati da solo” nel senso di risolvere i tuoi problemi, se ce la fai, poi ci sono io ad aiutarti, ma intanto arrangiati”.

La paura altro non è che la mala interpretazione dell’insegnamento paterno, ovvero “che non c’è nessuno che mi aiuta e dunque il disagio me lo gratto tutto io”.

La paura altro non è che l’oggetto temuto, e se lo temo con forza, prima o dopo mi viene addosso (non è solo buon senso comune che autorizza questo pensiero). Il pensiero di anticipo (che poi è la stessa paura) oltre che produrre psicopatologia, rende il soggetto debole per cui maggiormente attaccabile dall’evento infausto (e non siamo nel campo della magia).

Pensare negativamente vuol dire non pensare al padre, che non è quello della “sospensione del giudizio” né tanto meno quello del giudizio preventivo/ossessivo/isterico che fa sì che in fondo noi agiamo da inibiti: il padre è colui del “fare e dopo pensare” nel senso che non esiste garanzia e tantomeno sorte avversa se uno non se la tira addosso.

Allora “ognuno parla per sé” significa che dal padre io ho voluto avere il tratto della salute nella misura in cui l’ho “voluta”: cioè attraverso il pensiero che “qualcuno ha piacere che io abbia piacere”. Proprio, in modo molto elementare, che pensare negativamente non significa pensare al padre, non significa pensare questo pensiero. Pensare al padre non è adottare il giudizio preventivo/ossessivo/isterico che fa sì che alla fine noi “agiamo” da inibiti.

OGNUNO PENSA PER SE’

“Ognuno pensa per sé” è l’atto di attribuzione a noi stessi che non siamo ostaggio di nessuna in inibizione.

“Ognuno pensa per sé” è che ognuno presta attenzione alle parole che dice ma soprattutto alle parole che l’altro dice, visto che la cosiddetta “energia” che ci tiene in vita è data dal legame e dall’ordine: noi siamo soddisfatti nell’ordine.

A volte ci sentiamo “fisicamente” lontani dalla vita, stanchi, avviliti, incapaci di trovare senso nelle cose e nel proprio operare. Anche il corpo si fa stanco e la mente si offusca, perdiamo persino momentaneamente la memoria.

Altre volte il nostro corpo è “espansivo”, ovvero vorrebbe uscire dai propri confini per sperimentare “altro”. Appunto in quanto questa espansione è l’atto di superamento della inibizione, ma la “grande libertà” ha una sua vita solo nella vita del sogno: “Non è vero che è sempre stata così” è la frase della uscita dalla inibizione e la possibile partenza verso la guarigione.

La guarigione non è guarigione “dal” sintomo in quanto sappiamo che il sintomo mi può portare alla angoscia e alla melanconia. Il sintomo è compromesso tra disagio e possibilità di vivere la vita, mentre l’angoscia è il fallimento del sintomo dovuto alla destrutturazione della vita stessa.

Noi siamo anche attaccati dalla malinconia ma sarà proprio il “non volere” essere attaccati la logica della psicopatologia. Nessuno è Gesù Cristo che è andato “volontariamente” incontro alla propria angoscia. Noi ci difendiamo dagli attacchi della vita: dobbiamo accettare che siamo “esposti”, deboli, mancanti, ma non accettiamo di essere “umili”. L’umiltà ci permetterebbe di supportare il nostro giudizio sulla realtà che viviamo e non su quella che supponiamo. E spesso noi supponiamo male, non rendendoci conto che nel vedere “mala” la realtà ci indeboliamo. Il male non serve a nulla se non a determinare altro male. Quando noi versiamo male sull’altro, incidiamo nella relazione in modo negativo e corriamo il rischio di perderla. Ed invece la nostra esistenza è l’arte di sapere mantenere le relazioni.

Dalle relazioni noi siamo portati a chiedere il tutto ma il tutto è impossibile, ma soprattutto antieconomico perché per avere il cosiddetto tutto dall’altro io lo pago con la mia psicopatologia, con il mio dolore legato alla insoddisfazione: il piacere è sempre una questione di misura, per questo la condizione dell’ideale è una condizione della rinuncia alla relazione. Noi non possiamo “gestire” il tutto, proprio perché il tutto non esiste, né noi possiamo continuamente rivolgere la attenzione verso noi stessi per “prepararci” a gestire il tutto: stare al proprio posto è la condizione della soluzione di tutti i mali: saper stare al secondo posto. Il posto giusto non è mai nella prima fila del teatro, ma della trincea (senza che guerra ci sia).

LIBERAZIONE E COMUNIONE

Questo non vuol dire tuttavia lo svilimento del giudizio dell’io su se stesso. Prima viene la costituzione personale (liberazione) e poi viene la relazione (comunione). I tempi non possono essere invertiti in quanto la liberazione personale (la fondazione del soggetto laico) è condizione del suo essere comunione con l’altro. Prima viene il pensare con la propria testa, dopo viene il pensare alla testa dell’altro.

E perché noi, più ci avviciniamo alla soddisfazione, maggiore diviene in noi la paura di perderla? La stima di noi stessi ci può aiutare a controllare questa paura ma non certo a metterla a tacere in modo soddisfacente, specie quando il corpo avverte dolori. Ci chiediamo allora se a tutto c’è soluzione, per tutto c’è speranza, oppure esiste un punto della vita in cui bisogna fermarsi o arrendersi (e semplicemente accettare il limite).

La soddisfazione merita lavoro ma anche tempo della festa e si è spensierati, ovvero senza pensieri, ovvero senza paura. Il pensiero buono, ad esempio quello di bene, o di liberazione, o di comunione, etc., è in sé e per sé delicatissimo: farne un uso eccessivo quasi lo si consuma. Il “subito” è la morte della soddisfazione e della festa in quanto la festa la si attende perché sia festa vera, sia vera liberazione.

STIMA

Stimare significa prima di tutto pesare, poi anche dare valore, dare fiducia. Infatti chi ama pesa e nello stesso tempo chi ama stima. Chi ama sa dire di no, alla stessa stregua di chi stima se prendere coscia o petto. Si fa una scelta e si rinuncia alla parte che non si sceglie. Molte patologie si articolano sul ping-pong. In questo senso la stima è l’antidoto alla dipendenza, in quanto si sa dire di no ma si accetta anche il no dall’altro, non a caso il dipendente non può stimare, gli va bene tutto, basta che lui si tolga dall’impiccio del suo stato di bisogno.

Il dipendente sta dalla parte di chi non prende partito e dunque percorre la strada di chi vuole evitare la relazione (anche se, ricordo, la dipendenza fa parte dell’umano). La stima diviene allora campo di responsabilità per se stesso e per l’altro. <br<
Ma la stima non può non comprendere la fede. Se la stima è razionalità (ed è bene che lo sia), la fede è quel dare all’altro che spesso razionalità non comprende: fede e stima possono benissimo andare a braccetto. Può esistere anche una fede mal riposta, ma in ogni caso arrecherà meno danni che non una assenza di fede, che inchioda il soggetto alla inibizione a forse ad una dolorosa solitudine. Se non c’è speranza nella via di uscita, allora come potremmo affrontare le peripezie della vita?

Guido Savio

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