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MALE E BENE

Brevi riflessioni sul libro di Franco Rella “Figure del Male”

BREVE LETTURA DI “FIGURE DEL MALE” DI FRANCO RELLA

Leopardi, nello Zibaldone, afferma che tutto è male e che la sofferenza è la essenza stessa del vivente. Singer, nel suo “Ombre sull’Hudson” afferma che Dio stesso è un Hitler che si scatena contro l’uomo. Ancora Leopardi afferma: “L’uomo si annoia e sente il suo nulla in ogni momento”. Jonas suggerisce di togliere e Dio, per poterlo pensare, l’attributo di “potere”. In “Tutto ciò che muore”, una cupa storia di violenza e di sangue di John Connolly, il protagonista chiede all’autore degli spaventosi delitti all’uomo che ha ucciso e anche scuoiato la figlia, perché lo abbia fatto. L’assassino risponde: “Perché potevo”. Perché ne avevo il potere. Ricoeur sostiene che se il male fosse comprensibile non sarebbe più il male, mentre Dostoevskij nell’ “Idiota” afferma quanto ai sia difficile rappresentare una persona buona.

Barth afferma che il male esiste e non si può capirlo. “Dio è Signore anche del lato sinistro della creazione. Ed è anche il signore del male.

Simone Weil, leggendo il Libro di Giobbe afferma che è “da cima a fondo un puro miracolo di verità e autenticità”, in quanto Dio vi è completamente assente, “assente come un morto”. E per questo il Libro di Giobbe deve essere antichissimo, proprio perchè parla di un dolore inconsolato, che esiste fin dalle origini del mondo o, come dice Anassimandro, che è l’origine del mondo stesso. Il dolore come origine del mondo.

Barth, Buber, Johnas, la Weil affermano che l’atto di creazione non è un atto di potenza, bensì un atto di abdicazione. Im questo senso Dio si è ritirato, non è sovrano.

Wiesel nel 79 afferma che Melville ha “resuscitato” Ismaele perché potesse raccontare della vita e della morte di Achab.

E’ altrettanto famosa la storia che tre rabbini avevano deciso di intentare un processo a Dio per giudicarlo in merito al massacro dei suoi figli. Nel dolore del mondo, Dio non può non essere responsabile, e se lo è va giudicato.

Satana, nel libro di Giobbe, affer,a: “Sono il medssaggero di Dio. Percorro la terra e gli riferisco delle storie. Vedo tutto. So tutto. Non posso fare tutto ma possi distruggere tutto”.

Adorno afferma che la filososofia di Auschwitz ha aperto il cancello su di un luogo che potremmo chiamare “no man’s land”.

E che dire di Agostino con il suo “Sive Deus, unde malum?”.

Ancora Leopardi, sulla scorta di Petrarca afferma che noia e malinconia “sono il sentimento della vita in ogni istante”.

Per quanto concerne l’angoscia sappiamo che Faust è il sosia di Goethe e che Kierkegaard nel suo “Diario” sostiene la “strana inquietudine che la vita che egli vive non sia interamente usa” ma che la segua come un’ombra.

Stare ed andare, nella noia, sono la stessa cosa, il paradosso tiene insieme la vita e la morte, il pensiero e il nulla, il niente e la cosa.

E chiudiamo i riferimenti con Lèvinas, che già nel 1948, ne “Il Tempo e l’Altro”, mette in luce il paradosso dell’amore: L’amore è una modalità, forse la prima, forse la più importante, di rapporto con l’altro. Ma l’amore tende alla unione totale con l’altro, alla sintesi o alla sua forma più esplicita che è il possesso. Ma nel momento in cui tale sintesi sembra avere luogo, per esempio nel rapporto d’amore, scopro che l’altro è inesorabilmente altro: realizza una insuperabile differenza che lo fa essere appunto come altro da me. L’amore vive dunque del suo fallimento nel senso del possesso.

Il male, quello “filosofico” che abbiamo citato in precedenza, dove lo troviamo nella vita di tutti i giorni. Senza dubbio nel rapporto, quando il mio modo di amare l’altra persona deve corrispondere al “suo” modo di amare. Io posso “ricentrarmi”, raccogliere i miei pezzi, ma in ogni caso mi trovo di fronte all’altro che mi pone la questione del bene e del male, di fronte alla quale io non so e non posso decidere. Non esiste bene e male nella relazione se non nel lasciare avvenire quello che avviene. Il bene e il male non possono essere rimandati alla filosofia, non possono essere rimandati ad una istanza terza, ma si giocano tra i due che si amano, ognuno scisso nella ricerca della propria soddisfazione e nella soddisfazione dell’altro. E’ una scissione inevitabile.

E poi che cosa significa “fare del male”. Certo, Rella, nel suo testo, ce lo mette davanti in lungo e in largo. Ma fare del male, in fin dei conti, è “non fare”, arenarsi di fronte all’altro nella paura del propria fare e dell’altrui ricevere. Allora quello che faccio sarà doloroso e anche faticoso in quanto l’altro è irriducibile, ma anche io sono irriducibile: ovvero tendo (e sono tentato) alla mia soddisfazione che non automaticamente si sovrappone a quella dell’altro.

Amare non vuol dire starsene quieto ma andare nel campo dell’altro a fare la propria semina. Nel tempo. Sapendo aspettare tempo. Tempo che le due soddisfazioni almeno si avvicinino.

Il male della Filosofia è il male della stasi, è il male del pensiero, è il male che non comprende l’azione (anche se esiste male che comprende crimini e misfatti).

Fare del male significa pensare costantemente che esiste un “dopo”. Il bene è il momento del fare l’atto all’altro nella speranza della soddisfazione, nel proprio corpo e nel corpo dell’altro, in tutte le sue manifestazioni.

Il male della Filosofia è il male della perplessità di fronte alla scelta. O la va o la spacca: si diceva una volta. E il detto vale ancora. Il bene o il male che faccio all’altro lo conto dopo l’atto. Forse non lo conto nemmeno. Forse non lo capisco nemmeno. Forse sfugge a me e anche al giudizio degli altri. In ogni caso è il fare che mi permette di avvicinarmi al bene. Altrimenti è il male della Filosofia.

Potremmo addirittura arrivare a dire che il male, nel momento in cui c’è il fare all’altro e per l’altro (a se stessi e per se stessi) non esiste. Il male è l’inibizione che mi imprigiona. Che imprigiona Leopardi e Petrarca.

Il bene è il pensiero che il nostro fare vada “fino in fondo”, anche se poi fondo non esiste. Basta il pensiero. Basta che io centri il pensiero su di me e vada verso l’altro per “essergli”. Per entrare nella sua vita come un essere (esser- ci) che lo calma nella sua domanda e che calma la mia domanda nei confronti dell’altro. E troverò la soluzione della mia domanda nel momento in cui smetterò di farmi la domanda: anche la domanda se sto facendo bene o sto facendo male.

Guido Savio