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IL MALE (PARTE TERZA)

IL MALE (il dolore del mondo) – Parte terza

IL MALE (il dolore del mondo)

(continua)

14 – Allora, ancora. Ma chi è Dio? Agostino risponde. “In interiore homine habitat veritas” e l’interiorità si guadagna, come pretendeva Platone, staccandosi dal mondo, come lo pretendeva lo stesso Maister Eckhart. E Platone ha modo di dire: “Amare mundum non est cognoscere Deum”.

Ma Dio sfugge alla definizione. Come nel frammento di Eraclito: “Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e muta come il fuoco quando si mischia ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma”.

All’uomo che richiede un dio del simbolo, syn-ballein, quello del mettere assieme, si oppone un dio della frammentazione, un dio che va fuori dalla comunità dalla quale è chiamato.

L’uomo chiama nel modo in cui l’uomo è capace di chiamare. Il Libro di Giobbe. Forse si è avvicinata di più a questo mistero, la discrepanza tra la parola dell’uomo e la parola del dio, Simon Weil quando scrive che il Libro di Giobbe è “da cima a fondo un puro miracolo di verità e autenticità”, un esempio perfetto di ciò che è sventura, quella sventura che “rendendo Dio completamente assente, più assente di un morto”. Il Libro di Giobbe è dunque per la Weil l’esempio della assenza di Dio, quella assenza che può spingersi a quella rottura e a quell’atto di decreazione che può condurci a scoprire le schegge di luce nascoste nel buio della materia. Tuttavia ci sembra di poter dire che la sventura, la assenza di Dio, è un atto che ci porta fuori dalla creazione, forse verso il principio. Il Libro di Giobbe deve comunque essere antichissimo, proprio perché parla di un dolore inconsolato e inconsolabile. Un dolore che è fin dalle origini del mondo o, come dice Anassimandro, che è l’origine stessa del mondo.

Allora un mondo nato sotto il segno del dolore? Un mondo nato sotto il segno del Male? Ma sappiamo anche che Dio, rinunciando alla sua onnipotenza, ha reso possibile il divenire, il Mondo, l’essere dell’uomo in quanto distinto da tutti gli altri “ esseri” che popolano il cosmo. Dio ha rinunciato ad essere sovrano del suo stesso mondo per accedervi come mendicante. Lo abbiamo visto in Weil. Ma come mendicante dell’amore. Il Dio Padre è colui che manca proprio nell’amore di coloro (i figli) che glielo devono. E i figli sono esseri umani (“essere uomini è essere figli”) nel momento in cui vivono la mancanza paterna come l’introduzione stessa alla loro esistenza.

Se Dio si ritira del proprio regno è per fare posto ai propri figli.

15 – Nel 1979 lo stesso Wiesel intenta un processo a Dio, come avevano fatto tre rabbini eruditi e pii in una sera di inverno, ribellandosi alla assenza di Dio di fronte al massacro del loro figli. Affermavano che nel dolore del mondo Dio non può non essere implicato: “O è responsabile o non lo è; se lo è, giudichiamolo. Se non lo è, che smetta di giudicarci ”. Sentenza già emessa. Sentenza terribile.

Wiesel ripetendo il processo di Giobbe incontra una difficoltà. Melville aveva resuscitato Ismaele per avere un testimone della fine di Achab. Ma i sommersi non possono testimoniare e i salvati dichiarano, in ogni istante, di non essere in grado di testimoniare, di essere corrosi da quel silenzio che porterà, molti di essi, al suicidio. Camus, nel suo Il Mito di Sisifo non poteva non avere ragione. C’è una unica domanda, quella sulla rispettabilità della vita. Sulla appartenenza della vita all’uomo che proprio per questo la rende rispettabile. Tutto il resto è relativo. Perfino Dio sul banco degli imputati.

Le parole testuali di Satana nel Libro di Giobbe, lo abbiamo già visto, sono inequivocabili: “Sono il messaggero di Dio. Percorro la terra e gli riferisco le storie. Vedo tutto, so tutto. Non posso fare tutto, ma posso disfare tutto”.

La ambiguità di Dio è la ambiguità della pietra di inciampo di Isaia.

Allora, Signore, “Liberaci dal male”.

16 – Allora la psicologia. Sappiamo che il concetto di “male” viene ricondotto dalla psicoanalisi alla presenza nell’essere umano, di una pulsione distruttiva, di un, come lo dice Freud “istinto di morte”. Io mi sono spesso chiesto, fuor di teoria, in che cosa consista il tanto famigerato “istinto di morte” ed ho trovato una unica, semplice, terrena risposta: la attrazione verso colui che è morto. I morti ci attraggono. I morti sono altro e l’altro, sanno quello che noi non sappiamo. Possomno quello che noi non possiamo.

Un altro pensiero. Il male costituisce una “forza”, contraria a tutto ciò che esiste come degno di lode o di ammirazione, ma è un agente attivo di prim’ordine, imprescindibile. Tanto quanto l’Inferno di Dante è trecentomilavolte più bello del Paradiso. Semplice differenza di movimento, di plasticità, di materia, di corpo, di verbum e di quant’altro. Ma non siamo letterati.

Il tema del male è il tema della imputabilità. Gli articoli 88 e 89 del nostro Codice Civile recitano: “Non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità di mente, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere”. Dio ce ne liberi. Se discutessimo di questo, della volontà dell’uomo di essere libero oppure di essere schiavo, la notte dei tempi, giustamente, ci oscurerebbe!

Eppure lì dentro ci giriamo: siamo liberi oppure no nel momento in cui bene o male facciamo (ammesso che bene o male sappiamo di che pasta sono fatti)? “L’armonia nascosta è più forte di quella manifesta” aveva modo di scrivere già Eraclito. E a me sembra anche umano troppo umano pretendere di sapere esattamente dove stiamo andando. Dove sta andando il nostro fare il bene o fare il male.

La psicoanalisi con Freud ha affrontato, ovviamente, il tema del male dal punto di vista strettamente clinico. Qualche esempio: “il perturbante (das Unheimliche)”, “la coazione a ripetere (Wiederholungszwang)”, “la pulsione di morte ( Todestrieb)”. Questo a grandi linee. Senza tralasciare tuttavia il fatto che Freud è esente allo statuto protestante che assegna al male uno sfondo immanente, costitutivo di una propria realtà a se stante. E se ciò è potuto accadere è accaduto perché Freud ha saputo elaborare il tema del Padre. Capendo Freud che ci si ammala in quanto si pensa che si abbia subito una certa qual ““ingiustizia psichica”, egli ha posto la soluzione della questione del Padre, del rapporto Figlio/Padre come fulcro della soluzione della crisi. Andando a vedere l’uomo nel momento della Crisi, Freud ha colto l’importanza della soluzione della crisi dell’Uomo con il Padre. Di qui il male è sempre stato un “atto”, mai una ontologia. Il male semmai è stata l’offesa ricevuta. Ma in quanto offesa riparabile con il lavoro di costituzione della propria imputabilità.

17 – Poi la psicoanalisi è un dire, è la parola, e come afferma Giorgio Agamben “Il dire è sempre ius dicere”. Dire giusto dunque al di fuori della menzogna che del male è la parola più subdola ma anche la più frequentata.

E ancora la psicoanalisi inquadra come tra il dire e il fare ci sia di mezzo il… male. Essendo proprio il male nella clinica l’inibizione, il sintomo e l’angoscia.

Nella nevrosi una delle frasi più frequenti riguardo al male è “sto male”, ovvero la personalizzazione, la individuazione di uno stato che in altri contesti invece è sentito e vissuto come uno statuto ontologico. In analisi verba manent nel senso che ognuno è chiamato ad essere responsabile delle parole che dice e del male che dicono le proprie parole. Le parole sono le sue, non quelle di un Altro. I fatti sono i suoi, non quelli della Esternità.

Il male in analisi è la latitanza della etica della responsabilità, come affermava Goethe: “Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo per davvero”. Se Dio è Padre nella relazione, la ingiustizia che noi non accettiamo , la “ingiustizia psichica” sulla quale noi non ci raccapezziamo, è proprio il dolore. Il dolore che viviamo come “personalizzazione” dell’attacco di Dio nei nostri confronti, mentre, lo afferma Natoli ora non ricordo dove, “il dolore è innocente”. E d’altra parte Freud parla del momento della guarigione come momento in cui l’uomo non personalizza il dolore, non lo vive in maniera persecutoria. Dio è geloso, soddisfatto, deluso, arrabbiato, e chi più ne ha più ne metta. Dio vuole qualcosa dai propri figli proprio perché, come diceva Simon Weil “ha abdicato”.

Ha abdicato e nello stesso tempo non si pone come soggetto della remunerazione. In questo senso si pone al di sopra del bene e del male. Introduce la categoria del rischio nel rapporto con l’uomo proprio per avere relazione. Poi da questo rischio è venuto fuori anche Auschwitz. Non credo, come si è soliti dire, che l’uomo sia posto di fronte alla scelta tra il bene e il male: l’uomo sceglie sempre quello che ritiene bene. Poi la realtà e anche le conseguenze daranno senso alla sua scelta. Nessun uomo si riconosce nella categoria del male, come difficilmente si riconosce nella categoria del “malato”. Mladic, Karazic e Milosevic non hanno scelto il male, da parte loro hanno scelto il bene. Poi il processo dirà. Per le persone sopraccitate passare con il rullo compressore sopra popoli da eliminare era il bene. Nulla di più. Ma questo proprio perché il sacro è ambiguo, perché il Padre non mi trasmette le soluzioni. Non mi traccia la divisione tra il bene e il male.

18 – Forse il bene e il male sono tentativi dell’uomo di dare dei sensi. Forse Dio è al di fuori di questi tentativi di giudizio. Di là c’è il leone, dice S. Agostino: sta all’uomo aprire o non aprire la porta. Ma non solo nel senso della azione, bensì anche nel senso del giudizio. In ogni caso è un pensiero propulsivo e di salute quello che dice: “Qualunque cosa accada, Dio ti ama”. Il bene e il male poi sono un problema dell’uomo, non è una questione di Dio.

Scrive Galimberti ancora in Orme del sacro: “I greci concepivano la natura come quell’ordine immutabile che nessuna azione umana poteva violare (…) Avendo in sé la sua norma, vincolata dal sigillo della necessità (ananke), la natura era quell’orizzonte inoltrepassabile, quel limite insuperabile a cui l’azione umana doveva piegarsi come alla suprema legge. Lo stesso Prometeo, l’inventore delle tecniche, non esita a riconoscere che la ‘tecnica è di gran lunga più debole della necessità’. L’impossibilità di dominare la natura iscrive sia il fare tecnico sia l’agire etico, nell’ordine immutabile che l’uomo non può dominare, ma solo svelare. Nasce da qui la concezione greca della verità come svelamento (aletheia) della natura (physis), dalla cui contemplazione (Theoria) nascono le conoscenze che regolano il fare e l’agire umano”.

E’ la Natura dunque che regola e la natura può avere un senso ma non una morale. Per ovviare a questo la teologia cristiana ha introdotto la volontà secondo la quale l’uomo seguirebbe escatologicamente la propria strada che lo porta dalla nascita alla morte. I greci affermano che la Natura è da sempre. Il cristianesimo dice che la natura è una creatura di Dio. Dunque dentro un discorso della volontà. E va da sé che per noi uomini, il pensiero di essere nella attenzione di una volontà, che per noi vuole qualche cosa, ci pone nella condizione della libertà del bene e del male. E che la volontà stessa agisce tanto nel bene quanto nel male.

La Volontà può essere un progetto di bene ma non possiamo non avere occhi per constatare che il dolore ha il potere di mettere in fortissimo dubbio questo assunto. Nel momento della esperienza le carte di Dio si scompigliano, nel momento del ragionarci sopra possono anche essere relativamente tranquille sopra al tavolo.

Guido Savio

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