- Psicoanalisi-Pratica.com - https://psicoanalisi-pratica.com -

DIALOGO SULLA DEBOLEZZA (SECONDA PARTE)

DUE AMICI SI CONFRONTANO SULLA DEBOLEZZA DELL’UOMO. LA VOLONTA’, IL TEMPO, LA MODERNITA’ SONO LE PAROLE DEL LORO PERCORSO.

E, amico, vado alla mia amata Poesia. Scrive Pedro Salinas nel suo Poema La voce a te dovuta:

“Domani”. La parola
libera, vacante, senza peso,
si muoveva nell’aria,
così senza anima e corpo,
senza colore ne bacio,
che l’ho lasciata passare
al mio fianco, nel mio oggi.

“Oggi”, capisci amico mio? “Oggi” è noi che ci consumiamo. Ma oggi. Oggi io consumo il mio Tempo che fa di “domani” una parola “senza peso”.

E consumo con la mano che entra nel mio corpo e nella mia anima a trovare quello che “già c’è” e c’è sempre stato. Non so se valori, non so se dei, non so se ricchezze, non so se angoscia e nulla. Ma la mano va dentro. Forse alla ricerca del “ nascosto”, forse di quello che io “voglio” nascondere. Ma ne sono sicuro? Nascondere la mia stessa Debolezza? Sono poi sicuro che “dentro” al mio sacco qualche cosa ci sia per davvero? Che il “nascosto” meriti tutto il mio lavoro per tenerlo là? E allora perché, amico mio, non scoprire? Perché non svelare? Perché non scavare? Anche se nulla ci fosse?

Ancora la mia amata Poesia. Il Bravo Michelangelo sa che la natura (dell’opera d’arte) sta già dentro nel marmo, dorme là, attende forse la mano che scavi e vada dentro. E poeta:

Non ha l’ottimo artista alcun concetto
Ch’un marmo solo in sé non circoscriva
Col suo soverchio, e solo a quello arriva
La man che ubbidisce all’intelletto.

E con lui John Donne: “Carvers do not faces make / But that away, wich hid them there, do take.”

B – Scavare. Cercare. Il “dentro”. Il “nascosto”. Mi sembrano parole di un altro mondo. Sono con te nel tuo stesso dubbio: che esista poi mai un “dentro”. Un “dentro” che a sua volta comprenda e contempli qualche cosa. Io vedo gli uomini che passano e sprecano la loro vita a nascondersi pensando di possedere poi una “verità” loro; sì, scritta con la lettera minuscola, un loro “essere se stessi”, una casa con un indirizzo preciso. No amico, non mi sento di credere in questo. Il “ dentro” è altrettanto sconosciuto che il “fuori”. Il “difeso” non è più ricchezza del vestito che portiamo o delle parole con cui tentiamo di avvolgerlo.
No. Il mondo “reale” non mi sorregge l’”interpretato”. Il nostro “io” è non-ostante. E non non-ostante questo o quello, questo o quel oggetto. Ma non-ostante e basta.

A – Allora dalle tue parole la mia Debolezza diverrebbe la mia angoscia. Io non so definirmi, il mondo non mi corrisponde e l’altro sa dire poco di me. Il “dentro” mi è negato. La presenza della mia stessa “memoria”, secondo te, non potrebbe confortarmi?

B – “Memory, the warder of the brain” dice Shakespeare nel suo Macbeth. La memoria fa dire a William James che riprende un concetto di Locke: “J am the same self that j was yesterday” e più avanti “Each of us when he awakens says: here’s the sam old self again, yast as he says, here’s the same old bed, the same old room, the same old world”.
Ma crediamo ancora amico a queste vecchie panzane? Ci illudiamo che ci sia uno “stesso” e un “medesimo” dall’oggi al domani, dal qui al là, dalla oscura sera prima al chiaro abbacinante del giorno dopo. Ombra e luce ci accecano. La memoria non ci soccorre. Crediamo che la memoria ci funzioni da fiume pacifico che contiene tutte le nostre peripezie? Se così fosse, amico mio, vivremmo il peggiore infantilismo, quello dell’adulto ingenuo per coscienza.
Questa nostra sarebbe la Debolezza della ingenuità. Imperdonabile il pensare che noi saremmo sorretti da una qualche “ continuità”.

Invece, amico caro, siamo vinti dalla pretesa che sulla continuità la memoria abbia qualche potere. Non c’è un “ieri” che mi dica qualcosa di preciso sull’”oggi” e tanto meno sul “domani”. Muti tra di loro i tre giorni. Di vivibile ce n’è uno solo, l’”oggi”. Troppo fiato e troppo inchiostro sono stati spesi e versati. La memoria non ci assiste perché non c’è strada, non c’è un “partire”. L’inizio è la ripetizione dell’”oggi” stesso che si perde ogni sera che tramonta il sole.

A – Questo pensi? E non è nichilismo questo? E allora come leggi Cacciari quando scrive: “L’inizio è un Offenbarung, puro aprirsi, ‘darsi’ immediato: qui “ancora è nulla” (in quanto nulla v’è di determinato) ma qualcosa deve divenire”. Ecco. Il ‘ darsi’ della immediatezza quando ancora c’è il pensiero di nulla. E’ difficile partire pensando che “dentro” ci sia nulla, almeno “nulla” nel senso del conoscibile (dall’altro). Mi pare che qui la nostra Debolezza abbia un respiro. Che questo pensiero sia “debole” proprio perché iniziale. Va all’aperto del Divenire.

“E’ necessario pertanto definire l’inizio come affetto dal negativo; e per rispondere al negativo che contiene in sé, esso d à-inizio; il Trieb al dare inizio esprime il bisogno, la mancanza, la miseria, il vuoto dell’inizio”. E’ ancora Cacciari che scrive. E allora io ti dico, amico, che la Debolezza che andiamo cercando è la “potenza del negativo”, oltre anche la memoria (di questo mi hai convinto), oltre il tempo, la quale, solo, metta in atto l’Iniziare. Potenza indefinita, non conosciuta. Potenza indefinita sia dal soggetto che dall’altro. Potenza che solo “lei” sa di esistere nel momento stesso dell’Inizio. Trieb è. La pulsione è. L’attesa è sempre quella di attendere (mistica o “cristica” mi verrebbe da dire).

Puoi sottoscrivere tu che siamo deboli in quanto attendiamo? O siamo uomini proprio per questo? Mi puoi sussurrare all’ orecchio che non c’è inizio se si parte da un nulla assoluto? No. Non lo puoi dire. Si parte da un granello di sabbia, ma si parte sempre da “qualche cosa”. Il “mancare”, amico mio, è questo il “qualche cosa”.

B – Non so che dirti amico, credimi. Io credo che si parte in continuazione ma senza “continuità” (e quindi forse il verbo stesso perde la sua stessa statura). Da un “qui” o da un “non-qui” credo che faccia poca differenza. Che importi alla Filosofia ma non a noi semplici pensatori. Vorrei dire che l’iniziare infogna la Debolezza dell’uomo perché lo mette, lui molteplice, sempre di fronte al numero “due”. Iniziare è “perdere”. Aut-Aut. L’atto partirà anche da una mancanza ma va a finire in un “perdere”, forse in un “perdersi”.

Dice Agamennone di fronte alla imposizione divina del sacrificio della figlia: “ Grave destino se non ti ubbidisco; ma grave pure se ucciderò mia figlia, luce della mia casa, intridendo presso l’altare queste mani di padre nel sangue della fanciulla sgozzata. C’è tra queste due vie una priva di mali?”

I dubbi di Agamennone cesellano la Debolezza del Re. E il Re è sempre debole proprio perché inizia. Molto meno moderno, certo, molto meno post-moderno nel Genesi è Abramo: “Il figlio Isacco chiese: ‘C’è qui il fuoco e la legna ma dov’è l’agnello per l’olocausto?’. Il padre Abramo rispose: ‘Dio stesso provvederà all’agnello per l’olocausto, figlio mio’”.

Forse che Dio è già morto nella Debolezza di Abramo? Forse che Abramo è uomo forte perchè sente solo i calli della mano di Dio? Amico, non so rispondere. Dicono che se l’uomo è debole lo è per la sua distanza da Dio. Lo sapeva anche il tuo Zarathustra. Ed è ancora più debole se questa distanza vuole colmare. E Giobbe? Giobbe chiede giustificazione a Dio per il suo soffrire e Dio gli risponde per le rime: “Dove eri tu mentre io mettevo le basi alla terra? Dimmelo se hai tanta scienza. Chi ne fissò le misure, se lo sai, o chi distese il regolo sopra di essa? Su che cosa furono poggiate le basi e chi pose la sua pietra angolare, mentre gioivano gli astri del mattino e giubilavano tutti i figli di Dio? Chi rinchiuse con due porte il mare quando eruppe nascendo dal seno materno?”.

Insomma ci siamo intesi. Ma solo nella domanda. La debolezza è del “grande uomo”?, è solo del “grande uomo” che è chiamato a iniziare, non so se dal nulla o da “qualche cosa”, ma certo qualche cosa la deve far morire, la deve uccidere. Fare morire per fare vivere? Qui la Debolezza? Qui il Destino?

A – Qui finiamo amico. Quel che ho capito mi basta. La Debolezza è semenza, e tanto mi basta. Che semenza sia. La Debolezza è semenza di morte? E morte sia, certo opporci non possiamo.

A e B – Anima mia, anima tua, balliamo in “cerchio”. Non andiamo da nessuna parte, per favore. Danziamo. Zarathustra prima soffriva e poi è diventato “convalescente”. La sua stessa volontà ha girato attorno a lui. E lui si è fatto girare attorno. So che non vado, non andiamo, amico né di qui né di là. Eppure Zarathustra “è diventato”. E ritorniamo da dove siamo partiti. Nell’uguale di partenza; forse nell’uguale di noi due, prima che cominciassimo a parlare la nostra Debolezza. E anche dopo averne parlato. Se parlato ne abbiamo. Eppure Zarathustra da sofferente è diventato “convalescente”.

Agosto 2002 GUIDO SAVIO