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RI-CONOSCENZA

RICONOSCENZA

La domanda (a volte “pretesa”) di riconoscenza, penso sia uno dei sentimenti che noi, nella nostra vita, maggiormente frequentiamo e che altrettanto con maggiore frequenza, rispetto ad altri sentimenti, ci porti a difficoltà nella relazione con l’altro.

Noi tutti, ovvio,“facciamo qualcosa” per l’altro (realmente). Poi, di questo nostro reale fare, ce ne facciamo un pensiero: ne rileviamo il peso, il valore, il costo che ci è costato  per l’appunto, e si mette im moto il “secondo atto” del pensiero stesso che sfocia in una presunzione che l’altro ci debba restituire (pari pari) quello che noi abbiamo dato. Può essere il semplice favore, l’interessamento ad un evento felice, il partecipare ad un evento doloroso, il sacrificarsi anche per l’altro, il dargli parte del nostro tempo e delle nostre energie, e via dicendo.

 

Questo darci da fare per l’altro dunque è una vera e propria realtà. Ma non è di questo di cui vorrei parlare. Vorrei fare alcune riflessioni su quello che è il “secondo atto”, forse meglio dire la partita di ritorno, che io vedrei in questo: all’osso: “Io ho fatto qualcosa per te, e tu che cosa hai fatto per me (tanto da pareggiare o almeno da arrivarci vicino?)”.

Credo che il pensiero che noi facciamo “di più” per l’altro ma riceviamo “di meno” sia antico quanto l’esistenza dell’uomo su questa terra.

 

La prima conseguenza di questo pensiero (quello che ci deve essere “pari patta” tra quello che io ti do e quello che tu mi restituisci) è il pensiero di perdita. Ovvero io mi penso sempre in perdita e dunque in credito, in attesa di compensazione. Quasi una costante fame e diritto allo stesso tempo, di essere risarcito per un esposto.

Ma sappiamo noi tutti che questo che io vado esponendo è il pensiero patologico. La stragrande maggioranza delle persone sane infatti fa favori, offre aiuto, concede tempo e ascolto all’altro senza chiedere niente in cambio. Senza, appunto, nulla pretendere. Anche se qualche dubbio in proposito a me rimane.

E dunque qui vorrei occuparmi esclusivamente della patologia che si esprime nella “pretesa” di riconoscenza.

Se io resto nel pensiero di avere perso qualcosa (nel fare del bene all’altro e non riceverne il corrispettivo) mi infilo dritto dritto nell’angoscia che recita: “ho perso”. Non credo esista  formulazione che descriva l’angoscia.

Se l’altro, a cui ho fatto un piacere,gli ho concesso tempo, ho dato un aiuto, etc. non mi offre riconoscenza, significa, alla lettera, che non mi “ri-conosce” per quello che sono, non ri-conosce la mia storia con lui o il mio amore con lei.

Riconoscenza è davvero “segno” alla lettera, nel rapporto tra persone: l’altro sa chi sono io e in quanto tale mi tratta, se mi tratta diversamente vuol dire che non mi riconosce, che non sa bene chi sono. Proprio, alla lettera, questione di “identità”.

Come a dire: “Ma non mi riconosci più?”. “Sai chi sono io, eppure te lo sei dimenticato?”.

Ognuno di noi ha un giudizio su se stesso (e non stiamo qui a discorrere sui dolori a cui, chi non ha un buon giudizio su se stesso, va inevitabilmente incontro).

 

E’ proprio questo giudizio che noi abbiamo su noi stessi che muove la domanda di riconoscenza. Ovvero io pretendo: “che tu mi conosca per quello che è il mio giudizio su me stesso”. Non sempre avviene così. Spesso l’altro confuta, contraddice, disdice il giudizio che noi abbiamo su noi stessi. Ma questo fa parte della vita, anche se di una parte dolorosa si tratta. A nessuno piace essere “contraddetto” come a nessuno piace essere “irriconosciuto”.

Se il giudizio che io ho su me stesso è sano, non è un giudizio animato dall’amor proprio o dalla vanagloria. E allora, io, in buona fede e in onestà “chiedo” che l’altro me lo “riconosca”. Non che sia d’accordo con me fino al millesimo, ma almeno che prenda atto delle mie buone intenzioni.

Poi sappiamo quanto fondamentale sia la parola dell’altro su di noi per fondare il nostro stesso giudizio su di noi. Ma anche questo discorso ci porterebbe fuori tema.

 

Fondamentalmente io desidero (sempre) che l’altro mi sia “grato” perché io ho un giudizio su me stesso che io conosco benissimo, e il mio giudizio su di me è il mio peso che metto sulla bilancia delle relazioni.

 

La pretesa di riconoscenza (o anche di gratitudine, non credo che tra le due cose ci sia grande differenza) potrebbe seguire questo schema logico: “Io ti conoscevo prima/ tu mi conoscevi prima…e allora perché questa differenza nel pesare me stesso, nel lasciarmi senza quella parte di restituzione che di diritto mi apparterrebbe? Tu me la dovresti ri-conoscere?”.

 

Possiamo capire benissimo come la patologia di questo schema posso sfiorare, se non interpretare pienamente una posizione paranoica. Il paranoico pretende eterna e millimetrica giustizia. Ed essendo il paranoico un militante, è lui il primo che con se stesso (e anche nella relazione) applica questa rigidità, questo integralismo.

Per cui è facile che (sempre nel pensiero patologico) l’altro che non mi è riconoscente, l’altro che non mi è grato per quello che io ho fatto per lui, mi diventi prima un soggetto inaffidabile e poi un vero e proprio nemico.

 

Molti pensieri ossessivi poi filano dietro al rimuginare sul comportamento degli altro nei nostri confronti proprio nel tema della riconoscenza.

 

La pretesa di restituzione, di riconoscimento, di gratitudine, alla fin fine, diventa un pensiero e una modalità di comportamento “seduttiva”: “Io desidero essere desiderato” dall’altro che, con la non parificazione del dato/avuto, non soddisfa questo mio pensiero tanto infantile quanto irrealizzabile. Dunque l’altro inadempiente diventerà per forza mio nemico. Credo che il sentimento dell’odio trovi in questi discorsi una robusta applicazione.

 

E mi viene in mente quel passo de «Il Paradiso perduto» di Milton in cui Satana dice che si è ribellato a Dio per il peso insopportabile della riconoscenza. Cos’è il peso della riconoscenza? Come può la gratitudine diventare insopportabile? Il caso più semplice è quello dell’invidia. Satana voleva di più, non accettava la sua condizione di secondo.

 

Trilussa, in una sua celebre poesia, descriveva la lungimiranza della gratitudine, alla base di relazioni solide e soddisfacenti, con una ironia disincantata che mai come ora si adatta al nostro vivere convulso. Pretenderla, nella nostra società liquida e materialista, purtroppo diventa…satanico.

 

 

GUIDO SAVIO