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GOETHE IN ITALIA (E L’AMICO CHE NON C’E’)

GOETHE IN ITALIA

Nel 1786 Goethe, a 37 anni, intraprende il suo primo viaggio in Italia, durato quasi due anni, e visita anche il Trentino: arrivò a Trento il 10 settembre e poi continuò il suo viaggio verso Rovereto e Torbole. Luogo ora di surfisti, di vele e di tante nautiche soddisfazioni.

« Eccomi a Rovereto, punto divisorio della lingua; più a nord si oscilla ancora fra il tedesco e l’italiano. Qui per la prima volta ho trovato un postiglione italiano autentico; il locandiere non parla tedesco, e io devo porre alla prova le mie capacità linguistiche. Come sono contento che questa lingua amata diventi ormai la lingua viva, la lingua dell’uso! »

(Goethe nel suo diario di viaggio in Italia (pubblicato nel 1829))

Che cosa voglio dire? Questo: Goethe arriva in cima ad Affi. Vede lo scenario immenso e irripetibile del lago di Garda che gli sta letteralmente “sotto i piedi”. Vede blu e verde ma soprattutto non capisce gli spazi. Non capisce che cosa gli sta sotto i piedi ( e chi ci è stato sa di che cosa parlo). Capisce comunque che quello è un luogo “altro”. Capisce che in quel luogo c’è stata la mano di qualcuno. Ma questa mano non lo aiuta. Non lo aiuta a reggere il blu e il verde del lago, ma soprattutto non lo aiuta a reggere l’incidenza dell’angolo attraverso il quale lui lo vede.

L’irrazionale incombe e irrompe nelle nostre cose quotidiane: sta a noi “convivere”: lo spaesamento dell’uomo è sempre una questione geometrica. Egli si sente solo e perso. La solitudine del pensiero le diviene padrona e il poeta, ma anche noi umani, sa quanti danni possa essa produrre.

Ogni uomo l’ha provato (Torbole e la solitudine). Goethe non si capacita che questo sia un “luogo del mondo”. Si sente costretto, sente che ha milioni di parole per dire la meraviglia che ha sotto i piedi, eppure queste sarebbero vane, inutili per dire quel “tutto”. Sente che le sue parole per descrivere Torbole e le vele gli si tapperebbero in bocca. Infatti non ha nessuno che lo ascolta. Neppure il vetturino, neppure il “taxista”. Neppure quello che parla la lingua da lui tanto amata.

Per dire parole ci deve essere “per forza” qualcuno che ascolti. E sappia capire. Sta male Goethe, sente diversi sintomi e chiede al vetturino di fermarsi. Non sa più dove è (potrebbe anche trattarsi della altrettanto famosa “sindrome di Stendhal”) e ha bisogno di aria da respirare. Ma lassù non c’è altro che aria e vento. Eppure lui entra in apnea. Diventa esposizione dell’uomo all’ambiente nella sua “crudezza”.

Il “taxista” obbedisce e lui scende dalla carrozza. Prova a respirare e poi “ragiona”: “Ma no!!! Ma come è possibile che tutta questa meraviglia io non la possa ‘spartire’ con nessuno: non un amico, non una donna” dice sconsolato tra sé e sé.

Goethe è disperato perché non ha in quel momento magicoper lui chi lo ascolta come lui vorrebbe, chi “spartisce”: il suo pensiero del cuore viene respinto nel più profondo del suo cuore. E gli fa male. Gli fa male “sentire” che nessuno, in quel momento…”sente”.

Ecco. Per me questo è il senso della vita: avere sempre qualcuno con cui dire, ridire, scrutare, condividere, compatire, spartire, scaricare, annusare le stesse cose, la stessa emozione, lo stesso fremito, lo stesso Torbole, lo stesso lago di Garda, scendendo dalla Germania. Sentire lo stesso senso di immortalità a cui la vita alcuni richiama, altri no. Questo è la vita e non tanto di più.

Guido Savio

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