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ANSIA DI FELICITA’

SULLE FORME “BUONE” DELL’ANSIA E DELLA INQUIETUDINE

ANSIA DI FELICITA’

Per rappresentare la vita, Hobbes usa una metafora di straordinaria efficacia: una corsa, priva di meta e senza nessun premio in palio se non quello della soddisfazione di essere sempre davanti.

Lo sforzarsi, è l’appetito.

Il mancar d’energie, è la sensualità.

Guardare gli altri che stanno dietro, è gloria.

Guardare quelli che stanno davanti, è umiltà.

Il perdere terreno per guardarsi indietro, vanagloria.

L’essere trattenuti, odio.

Tornare indietro, pentimento.

L’essere in fiato, speranza.

L’essere affaticato, disperazione.

Sforzarsi di superare chi sta immediatamente davanti, emulazione.

Soppiantare o far cadere, invidia.

Decidere di aprirsi a forza in un ostacolo visto davanti, coraggio.

Aprirsi a forza un varco in un ostacolo improvviso, ira.

Aprirsi a forza un varco con facilità, magnanimità.

Perdere terreno per piccoli impedimenti, pusillanimità.

Cadere all’improvviso, è disposizione al pianto.

Vedere un altro cadere, disposizione al riso.

Vedere sorpassato uno che non avremmo voluto, è compassione.

Vedere uno, che non avremmo voluto, sorpassare gli altri, indignazione.

Seguir d’appresso un altro, è amare.

Spingere colui che così segua d’appresso, carità.

Farsi male per troppa furia, è vergogna.

Essere superato continuamente, è infelicità.

Superare continuamente quelli davanti, è felicità.

E abbandonare la pista, è morire.

(Thomas Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, I, IX, 21, pp. 75-76)

Dunque l’uomo è un soggetto in corsa, e la sua felicità si lega all’essere davanti agli altri. Ma non ci appaia, troppo cinica e materialistica questa visione hobbesiana dell’uomo. In effetti, anche a livello di fisiologia di base, noi siamo corpi sempre in movimento, stimolati dal desiderio verso l’esterno, verso l’altro (non solo verso il superamento dell’altro), e usiamo la ragione come strumento che ci indichi quali possono essere i mezzi più adeguati per raggiungere l’oggetto del nostro stesso desiderio, che poi altro non è che la felicità (con tutte le riserve che l’uso di questa parola può comportare con sé).

Tuttavia restiamo fedeli al testo di Hobbes che esprime un concetto chiaro: la felicità è potere. Non a caso, sempre nella stessa opera, egli afferma che la sete di potere, assoluta e primaria, è “inclinazione generale in tutta l’umanità” e rende gli uomini tutti uguali. Certo esistono molti parametri in merito alla reale o presunta uguaglianza tra gli uomini, tuttavia quello del potere, della ricerca di esso è senza dubbio, oltre ogni falso moralismo, uno dei più convincenti.

Non necessariamente il potere “contro” gli altri (come evidenzia Hobbes) ma il potere come forma di forza, di possibilità vitale, di intraprendenza, di impegno, di volontà, di fiducia in se stessi, di idea verso un futuro, di coraggio, anche di amore per se stessi. E’ vero che noi tutti cerchiamo di vedere, vivere e gestire dentro la nostra vita le varie forme di esercizio di potere di cui siamo capaci, ma non necessariamente le forme del “potere” come sopraffazione.

Nella clinica si nota, ad esempio, come la melanconia si leghi al pensiero di non avere potere, di non “essere capaci di…”, di essere stanchi, di essere fermi mentre il mondo viaggia senza di noi, di essere fragili, se non perdenti, nell’affrontare le prove e le responsabilità della vita.

Il pensiero di potere dunque, la nostra intima ricerca di potere, non necessariamente ha una connotazione patologica. Anzi. Se io penso che “posso”, faccio. Poi il risultato del mio fare si vedrà, ma intanto faccio, percorro la mia strada, forse la stessa di Hobbes. Mi do da fare non tanto per raggiungere un traguardo, ma per onorare i motivi per cui sono venuto al mondo: primo tra tutti la realizzazione di me stesso.

Certo, il potere così inteso comporta un certo quoziente di ansia, la stessa ansia che sottende tutta la metafora hobbesiana. Più io sento che “posso”, più sono portato a vivere ansia. Ma in questo senso si tratta della vitalità dell’ansia, non della patologia a dover raggiungere per forza un traguardo, o dell’ossessione della sua mancanza, o della disperazione del fallimento, bensì la forma “umana” attraverso la quale noi possiamo realizzarci. Non vedo realizzazione senza la partecipazione di una componente di ansia. Ansia è movimento, è percorso; la questione è come noi viviamo questo sentimento, la negatività o la positività con cui ci conviviamo o sappiamo gestire.

Ancora nella clinica, la inibizione, la passività, il disinteresse, la paura, l’impedimento, etc. nel momento in cui vengono “sollecitati”, ovvero si propone all’inibito una possibilità reale per uscire dalla propria inibizione, la prima risposta che egli dà è l’ansia. Ovvero, meglio stare fermi che correre il rischio di muoversi. E vediamo come ancora Hobbes con la sua metafora della strada, non sia molto lontano da una lettura realistica della natura umana (sana e psicopatologica).

Sapere di potere comporta ansia. Mettere in atto il proprio potere comporta ansia. Lavorare per realizzare se stessi comporta ansia.

E dunque, a questo punto, che cosa è realmente l’ansia? Lapidario è Umberto Galimberti nella sua Garzantina “Psicologia”: “L’ansia rappresenta una condizione di generale attivazione delle risorse mentali e fisiche del soggetto: contenuta entro certi limiti produce un effetto di ottimizzazione delle prestazioni; se tali limiti vengono superati diventa patologica e compromette l’efficienza funzionale del soggetto”.

Nulla di più chiaro. L’ansia giustamente motivata è salute. Quella sovradimensionata rispetto alla realtà, è patologia.

Appunto l’ansia è una attivazione, la attivazione di una potenza, di una possibilità, di una opportunità, di un potere comunque. Forse il pensiero di potere percorrere la strada di cui Hobbes fa metafora, ma senza dubbio è del tutto legittimo che noi sentiamo di incrementare questo potere attraverso mezzi personali (ricchezza, benessere, salute, etc.), e attraverso mezzi relazionali (amicizia, amore, stima, correttezza, etc.).

Se pensiamo bene è a questo che noi tendiamo. E’ alla realizzazione delle nostre possibilità che noi dedichiamo la vita. E questo comporta lavoro, impegno, capacità di adattamento, volontà, tensione, energia, ansia.

L’essere umano è alla costante ricerca dell’appagamento del suo desiderio, è alla ricerca di una “vita appagata” (contented life), come la definisce Hobbes (Leviatano, XI, p. 94) nel senso della ricerca di posizione di base migliori per potersi poi proiettare su nuovi scenari di felicità. Ma l’essere umano sa anche che questo compito è inesauribile, sempre esposto alla irrequietezza e alla incertezza.

Hobbes infatti sceglie come modello di identificazione per l’uomo, Prometeo: emblema di hybris e di infelicità per gli antichi, incatenato dall’intelligente vitalità dei suoi desideri e incarnazione dell’ansia verso il futuro e della sua prevedibilità.

L’ansia del futuro appartiene alla sensibilità proiettiva degli uomini migliori: “infatti, essendo sicuro che ci sono delle cause per tutte le cose che sono accadute fin qui o accadranno in seguito, è impossibile per un uomo, il quale si sforza continuamente di assicurarsi contro il male che teme e di procurarsi il bene che desidera, non essere perpetuamente sollecito del proprio avvenire. Cosicché tutti gli uomini, specialmente quelli che sono troppo previdenti, sono in uno stato simile a quello di Prometeo” (XII, p. 103).

Prometeo, la traduzione del cui nome significa “uomo prudente”, è il prototipo dell’uomo moderno che, preoccupato per il futuro, guarda troppo lontano davanti a sé, ma in realtà si ritrova affannato dal timore delle calamità, della povertà, della malattia e della morte. Più l’uomo guarda a fini lontani e maggiormente è inquieto, ansioso in quanto è mobilitato al massimo il suo pensiero di potere.

Il pensiero di futuro non è disgiungibile dal pensiero di potere intervenire sul futuro, e questo rimanda all’ansia per il possibile fare in modo che il futuro sia il più possibile lontano dal dolore.

Ma diversamente l’uomo, alla ricerca della propria felicità, non può fare. Noi siamo “costretti, come Prometeo alla roccia del Caucaso, a sperimentare l’ansia come strada verso la felicità, provando dolore da un lato e realizzazione (relativa e limitata) della nostra felicità dall’altro.

Tuttavia sappiamo anche che più l’uomo è previdente, e guarda a fini lontani, più è inquieto; più è capace di immaginare con intelligenza il futuro, più diventa difficile per lui godere del presente.

Forse sta nella conciliazione tra preoccupazione per il futuro e la capacità di vivere ciò che offre il presente la nostra felicità. Forse sta nel perseguire con costanza un nostro fine ultimo e allo stesso tempo stare fermi a vivere il presente.

Ma poi esiste una felicità reale? Esiste una felicità “oggettiva” a cui ognuno di noi può accedere esercitando il proprio potere vitale?

La distanza che separa la felicità reale da quella immaginaria è il terreno di ricerca di Locke, il quale è deciso a rendere più praticabile l’obiettivo della felicità cercando di contenere l’inquietudine e l’ansia dell’uomo nel percorso per raggiungerla.

In questo senso, quello della distinzione tra felicità reale e immaginaria, Locke costruisce il suo pensiero accettando due soli principi naturali innati: il desiderio della felicità (del piacere) e l’avversione per il dolore. Questi principi (d’altra parte non nuovi alla speculazione filosofica, influenzano tutte le azioni umane e possono essere osservati in modo oggettivo, “stabili e universali” (Saggio sull’intelletto umano, I, II, § 3) in tutte le persone, di entrambi i sessi e di tutte le età.

Ma anche nella oggettività della loro osservazione, i sentimenti e le esperienze umane che tendono alla felicità non possono essere disgiunte dal dolore, dall’ansia, dalla frustrazione. E allora anche Locke come Hobbes afferma che “disagio (uneasiness) e “desiderio (desire)” rimandano l’uno all’altro, e anche Locke fa dell’inquietudine “il principale se non l’unico sprone all’industriosità umana” (II, XX, § 6).

Ma se si riconosce qualcosa come un bene maggiore, l’uomo è motivato a cercarlo solo se interviene un disagio proporzionato. Ovvero l’essere umano si attiva nella sua ricerca della felicità, se è mosso da una mancanza, da una frustrazione, da uno squilibrio, da un disagio, da un’ansia in altre parole. Io mi muovo verso il piacere se sono mosso da un dolore presente. Quella che Locke chiama “industriosità umana” altro non è che il lavoro del destino dell’uomo, ovvero il lavoro di liberare se stesso dalla necessità e dalla dipendenza, spendendo tutto il potere di cui è in possesso.

Senza dubbio la felicità non corrisponde con un piacere momentaneo, ma con il “massimo” piacere possibile, e questo, a sua volta, coincide primariamente con l’eliminazione del “massimo” disagio possibile, ma non di tutti i disagi in quanto è una certa quota di disagio che spinge l’uomo ad esercitare le sue “virtù”, che poi sono le sue“possibilità” per il raggiungere la stessa felicità.

Il potere di esistere (il desiderio di mantenersi vivi) è certo una delle forme psicologiche più primitive, e questo potere comporta l’impegno del soggetto con se stesso, di modificare sia il proprio stato interiore, sia lo stato della realtà per potersi affermare. Il lavoro di modificazione è il lavoro di una vita intera, e noi sappiamo come ogni forma di modificazione comporti un superamento ma anche un ribaltamento dell’ordine precedente. E superamento e ribaltamento comportano un pensiero di irrequietezza, quasi una irrequietezza ontologica dell’uomo, che per il solo fatto di essere venuto al mondo ha provocato cambiamento e ribaltamento.

L’inquietudine non è semplicemente un desiderio determinato (stimolo dall’esterno), ma una disposizione permanente alla ricerca di nuove possibilità di soddisfazione, nella prospettiva, comune all’umano di uno sviluppo “di tutta la facoltà di sentire… nell’ esercizio di tutte le facoltà” (Montaigne, Corso di Storia antica, p. 528).

Guido Savio

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