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FELICITA’

Propongo queste brevi riflessioni sulla “felicità” a partire da tre testi di due buoni filosofi italiani. Il primo è “Ordo amoris” di Remo Bodei. Il secondo è “L’allegria della mente” di Roberta de Monticelli. Il terzo è “Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi, sempre della de Monticelli.

“Sciogliere i nodi che bloccano la volontà, cicatrizzare i dissidi, togliere il peso del passato, permettendo a ciascuno di riformulare e ricominciare da capo la propria vita: è questo il compito dell’amore, sinonimo di rinnovamento e di soluzione dei conflitti. Ma l’amore non apre solo verso il futuro, bensì persino verso il passato: per il suo tramite il male commesso e subito, le sofferenze inflitte e ricevute trovano il loro riscatto. Ed esso diventa “ordine”, nel senso di una libera disposizione dell’animo e della risposta obbediente a un comandamento esterno, divino”.

Questo si legge nella quarta di copertina del libro di Bodei. Il tema è ovviamente agostiniano. Le riflessioni che seguiranno saranno sostanzialmente riflessioni su pensieri di Agostino.

Ed emerge subito il problema della conciliabilità.

Come potrà l’amore essere portatore del nuovo, della libertà, della creatività del soggetto se poi deve confrontarsi tutto sommato con la staticità del comandamento divino?

Come potrà l’amore, specie nella nostra epoca, inteso come forma più elevata sia di spontaneità ma anche di “trasgressione” conciliarsi e rapportarsi con una prevedibilità, con una routine, con il “già conosciuto” che in qualche maniera l’amore per Dio rapppresenta?

Come potrà l’amore, quello tra gli uomini, o quello tra donna e uomo, essere inteso come libero dono se poi questo dono ha una finalità terza, ovvero Dio? <br<
E poi in che cosa consiste questo “ordine”?

Lo dice subito Agostino ne “La Città di Dio”: L’amore “è buono quando rispetta l’ordine”, l’amore è cattivo “quando l’ordine viene turbato”. In altre parole esiste una gerarchia o una scala alla quale l’uomo si deve sottoporre se vuole ricavare felicità dell’amore.

In ogni caso la gerarchia non può non avere come fine la felicità. Che la felicità abbia a che fare con l’abbraccio divino o con l’abbraccio umano. La logica che, a mio modo di vedere, consente il passaggio è la logica del dono, e sappiamo che dono è il privarsi di un qualche cosa di proprio per fare piacere all’altro.

Come sostiene Roberta de Monticelli in “L’allegria della mente” (e qui la logica del dono) ha a che fare con “alegrar”, cioè alleggerire. L’allegria della mente è “in qualche modo il segno, l’effettto o la speranza, dell’esperienza dello spirito, che il libro biblico della sapienza qualifica con tutti gli aggettivi della leggerezza”.

Allegria dunque come alleggerire il rapporto, rendere possibile il superare quella che può essere l’opposizione iniziale al rapporto . Ordine è mettere in ordine inizialmente la economia del rapporto. Allora le parole finora importanti sono: allegria – dono – alleggerire – ordine.

L’amore poi, nella somma delle parole appena citate, è lo svelare, la svelatezza, quella che i greci nominavano come “a-letheia” (che tra le altre significa anche “verità”). La verità intima del soggetto è il suo svelarsi (denudarsi) di fronte all’altro portandogli un dono, che significa dare un ordine anche gerarchico di importanza e di priorità ai propri pensieri e alle proprie scelte.

In effetti la verità del soggetto che ama è data della sua nudità ne’’offrire dono all’altro”. Si potrebbe anche dire “dono di se stesso”. E qui rientra Agostino quando parla dell’amore come dono del tutto il proprio essere a Dio. Infatti quando parla della famosa “trinità umana” elenca intelletto, volontà e amore. Che sono il luogo dove sta di casa il soggetto, sono la sua completezza, oltre che la sua natura più profonda.

D’altra parte sappiamo che donne come Hannah Arendt, Jeanne Hersch, Etty HiIllesum, Edith Stein, per non parlare di Simon Weil, hanno scritto quello che hanno scritto a partire dalle riflessioni di Agostino sull’ amore come ordine.

Ordine, in amore, è la condizione per cui… funziona. La condizione per cui tra due persone le cose portano alla soddisfazione, la condizione per cui il dono è inteso come arricchimento e non privazione, la condizione per cui l’uno desidera il bene dell’altro prima ancora che desiderare il proprio bene.

In amore il dono è vita, e solo in questo senso può portare a felicità. Ma il contenuto dell’amore tra due deve avere la caratteristica della “leggibilità”. E Jeanne Hersch ha modo di dire che l’amore è fare vedere “l’inesauribile e l’irriducibile attraverso pensieri chiari”. Pure nel mistero che l’altro rappresenta io vivo amore con lui/lei solamente se so darmi chiaramente. Solo se i registri del mio dire e del mio fare sono la mia stessa nudità della quale io non provo vergogna.

La de Monticelli fa un bel discorso sul riposo in merito all’amore e il darsi all’altro, affermando che il riposo è riposo dalla necessità del dover rispondere, dalla pressione di dover rispondere all’altro. Poi ancora il riposo, nella relazione amorosa, come “ricreazione”. “Ricreazione – afferma la de Monticelli – è forse lo stato nascente di ogni nuova crescita interiore. (…) C’è un senso di freschezza, di rinnovamento e come di rinascita in atto”.

Riposo è attesa dell’altro, è la condizione dell’aspettare che tanta felicità porta a chi lo sa mettere in pratica, senza appunto la pressione dell’altro che deve arrivare per forza. In Agostino ad esempio il termine “riposare” è “requiescere” che nelle “Confessioni” è l’atto finale della partenza che è l’”inquieto cor nostrum”.

Attesa dell’opera di riempimento dell’altro da intendersi come realizzazione di se stessi, come continua la de Monticelli: ” Insomma, la ricaduta dello spirito è il divenire sé, oltre quello che si sapeva, credeva o ci si illudeva di essere. E’ fiorire e portare frutto, oltre se stessi” fino allo “zoopoiein” cioè fino al dono della propria vita. La identità del soggetto, che è mediazione tra identità personale e (auto)coscienza, fra sé e rappresentazione di sé, diviene una realtà felice nel momento in cui a tutto ciò si aggiunge la logica e la pratica del dono all’altro, del saper riposare per attendere l’altro a cui fare un dono, anche, come detto, il dono della propria vita.

La felicità della relazione è data dal fatto che l’altro non finisce mai di stupirci, a volte l’altro che ci stupisce di più siamo noi stessi. In alcune occasioni siamo posti di fronte alla ovvietà, altre al mistero di noi stessi e dell’altro. E’ questo scarto, questa sorpresa, oltre ad una relativa conoscenza, che fa in modo che la relazione… abbia sempre qualcosa da dire, ed Edmund Russel ed Edith Stein chiamano tutto questo “empatia”, cioè noi percepiamo l’altro come tale, capace di agire e di decidere, capace di esperienza, passione, volontà e anche sofferenza.

La volontà come dato primario, anche se Agostino, come afferma Remo Bodei nel suo ordo amoris”, parla di una netta divisione tra volere e non volere, il “partim velle, partim nolle”, appare come una vera e propria malattia” quasi che la volontà della reciprocità dell’altro divorziasse dal poterlo fare, quasi ci fosse sempre presente il dato paolino “non faccio il bene che voglio ma faccio il male che non voglio, questo faccio”.

Felicità è il fare il bene, nel limite del nostro possibile, anche all’interno della logica contraddizione umana. Perché felicità è vitalità, cioè tutti i modi di sentire il nostro corpo, il benessere, il malessere, la freschezza e la stanchezza; e la nostra mente in tutta la gamma degli stati d’animo, dal polo della depressione a quello dell’euforia attraverso tutte le sfumature intermedie, dalla irrequietezza alla serenità. Felicità è la gamma del vivere, per il solo fatto di vivere, anche se essa è contenitore del bene e del male che il nostro corpo e la nostra mente sanno produrre. Basta che noi siamo capaci di “introspezione”, cioè capaci di guardarci dentro.

“E’ nel sentire il valore relativo delle cose – scrive la de Monticelli – che ciascuno incontra se stesso. E’ nel consentire e nel dissentire che ogni sentimento attiva nei confronti della cosa o della persona che lo suscita e lo nutre, che io sono, più o meno in profondità “dato” a me stesso”.

Sono i nostri amori che ci rivelano a noi stessi e agli altri. Sono le nostre prese di posizione che ci rivelano l’ordine di ciò che ci sta a cuore, forse è questo l’”ordo amoris” (umano) che intende Agostino.
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Sostanzialmente a sorreggerci c’è la volontà. Io vedrei questo prendere posizione come un atto di volontà, che può anche andare a situarsi della logica dell’ “ordo amoris” di Agostino. Si diceva all’inizio che uno dei problemi potrebbe essere quello della conciliazione tra l’ordine divino e la volontà umana. Il problema può essere risolto in questa condizione: l’uomo vuole e (nel pensiero dell’uomo) Dio appoggia il suo volere.

La de Monticelli cerca di trovare una risposta citando Leibniz: “Il cuore del suo pensiero dice che sbagliata è semplicemente questa opposizione tra “natura”(che viene da Dio) e volontà che sarebbe nostra – se non fosse determinata dalla natura che abbiamo. Quella determinata volontà esprime pienamente ciò che siamo come siamo. La volontà di Dio è la nostra. Siamo tutti ‘fulgurazioni continue della sua divinità’”.

E’ il pensiero che esiste un luogo dentro di noi dove Dio dimora e “compie” (assieme a noi) i nostri atti di volontà? Difficile a dirsi, perché in questo caso non si spiegherebbe la presenza del male che noi tutti, indistintamente, facciamo. Il male inflitto e il bene non fatto sono uno dei problemi più forti della nostra esistenza.

Il pensiero è così dentro a noi stessi in quanto è assai difficile non vederci protagonisti del male che facciamo. Non è una questione di libero o servo arbitrio, è una questione di identità, di Io. E’ il nostro io (così noi percepiamo nel nostro pensiero) che fa il bene o il male, in prima persona, senza intermediazioni, senza alibi più o meno trascendentali che possano lenire il dolore. Chi fa del male vive una colpa e questa colpa determina tanta sofferenza proprio perché è il nostro Io che è attore del male stesso.

Secondo Agostino il male prende , che non ha una causa efficiente ma solo una causa efficiente sempre lo spunto da un vuoto. Tale vuoto è secondo Agostino alla base della “curiositas”, ovvero dell’inattenzione, ovvero della distrazione.

Seguiamo il ragionamento. Sempre secondo Agostino la “curiositas” è una degenerazione dell’amore ci conoscenza, che porta lontano dalla felicità. La “curiositas” è una forma di “perversio amoris”, cioè tutto sommato di un disordine che consiste nel preferire un bene minore ad un bene maggiore. Addirittura Agostino ipotizza che la pratica della “curiositas” sia fonte di angoscia. Proprio perché la “curiositas” è “avidità degli occhi”. Ovvero della passione.

Ma allora come facciamo noi moderni a conciliare il concetto di “curiositas” di Agostino con il pensiero positivo e sano del lessico (moderno) che vede nella curiosità una degli atti della conoscenza oltre che una virtù indiscussa del soggetto creativo? In amore la curiosità è una colonna portante della relazione in quanto preserva della noia e della stanchezza. Nel raggiungimento della cosiddetta felicità la curiosità è motore del percorso verso la meta che ci proponiamo.

Ma soprattutto la curiosità è la molla che agita la nostra passione di conoscere se stessi, della conoscenza di sé.

Agostino offre una soluzione abbastanza sbrigativa del dissidio, della differenza tra curiosità e vera conoscenza di se stessi: afferma che la curiosità porta a una “vulnerabilità del molteplice” (ovvero è dispersione) mentre la vera conoscenza di sé è unificazione interiore (monosis). Ma la giustificazione è difficile che soddisfi l’uomo moderno e soprattutto laico che vede nella curiosità, specie all’interno delle varie psicologie, una virtù irrinunciabile non solo per la conoscenza di se stessi ma soprattutto per la conoscenza dell’altro, dunque per la pratica dell’amore. Agostino vede nella curiosità una certa labilità della mente, una “natura lapsa” che porterebbe l’uomo ad essere una creatura angosciata e soprattutto mortale. Agostino parla di affollamento mentale quando cita la curiosità dell’uomo per l’uomo, e ovviamente di ordine quando parla dell’intelletto dell’uomo rivolto direttamente a Dio. Per Agostino la curiosità è inquietudine, e questo al moderno può andare anche bene, se si considera la sua tendenza al moto della conoscenza e della conoscenza dell’altro.

Scrive la de Monticelli: “La curiosità – e la dispersione della mente – è la forma perversa dell’amore di conoscenza. Ma ecco il paradosso agostiniano: attaccandosi a se stesso l’uomo finirà per ignorare se stesso, ignorare il proprio cuore. Solo rivolgendosi ad un Altro ritroverà, con il giusto ordine dell’amore, il centro di se stesso, il suo stesso cuore. E con questo soltanto avrà la felicità della mente: la visione dell’ordine del tutto – nel dettaglio: il dominio di tutti i punti della circonferenza, dal suo centro”.

Mi sembra ottima questa considerazione della de Monticelli: la felicità consiste nel vedere il tutto oltre l’altro che si ama. Esiste sempre un oltre. Esiste sempre un Altro oltre la nostra esperienza sensibile dell’amore per un’altra persona. Noi amiamo “uno” perché siamo nella possibilità di amare l’Universo. La curiosità diventa pericolosa se noi ci fermiamo sull’uno. Si trasforma in prolifica che la spostiamo dell’ “uno” al tutto.

L’interiorità di una persona è la parte essenziale e spesso misconosciuta, nascosta, misteriosa, di ciascuno per la quale ragione egli trascende la parte di lui che noi vediamo, che noi amiamo. L’altro ci rimanda ad Altro. La felicità può consistere in questo. E l’uomo è libero, esercita il suo libero arbitrio nell’agire su se stesso e nell’agire sull’altro. Ancora agostinianamente la libertà è potere. Volere qualcosa è libertà che può portare alla felicità. La nostra cattiva volontà è quella che Agostino chiama “captivitas” ma che noi chiamiamo inibizione: ovvero il non poter fare verso noi stessi e verso l’altro. Felicità, a mio modo di vedere è invece la libertà del soggetto in questo ambito.

E afferma ancora la de Monticelli: “Chi decide non è un altro. Io – non un altro – faccio ciò che faccio e voglio ciò che voglio, al punto che il mio volere mi esprime e le mie azioni mi dicono chi sono, mi fanno conoscere a me stesso e agli altri. E spesso con doloroso stupore”. L’infelicità è la debolezza del volere. Anche a titolo clinico, la malattia è la inibizione. Tutta la nostra vita è esitazione, un dover decidere, deliberazione, conflitti quotidiani.

Il centro della cosiddetta felicità è la applicazione del volere, ma voler vivere “volentieri”. Volontà e “volentieri” si sovrappongono. E guarigione, come afferma anche Simone Weil è la affermazione del proprio essere, l’agire non volontariamente ma volentieri. “La purificazione – afferma la Weil – è la separazione del bene e delle cupidigia”. E questa azione la si compie soltanto con un atto di volontà: “caritas” in opposizione a “cupiditas”. Ma non dobbiamo impedire al cuore di essere toccato da quello che ci fa soffrire in quanto felicità comprende inevitabilmente lo spirito della sofferenza.

Guido Savio

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