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SULLA SODDISFAZIONE

Soddisfazione e amore

“Non occorre possedere un’anima molto elevata per comprendere che quaggiù non vi sono punto soddisfazioni veritiere e solide; che tutti i nostri piaceri non sono che vanità, che i nostri mali sono infiniti e che la morte infine, che ci minaccia in ogni istante, ci metterà infallibilmente entro pochi anni nell’orribile necessità di essere eternamente o annichiliti o infelici”.

E’ questo un brano tratto dai “Pensieri” di Blaise Pascal che ho scelto per fare alcune riflessioni. Il passo interessa per la sua crudezza ma anche per la sua “veridicità”, bensì soprattutto perché tratta la questione che maggiormente dovrebbe interessare ogni individuo, ovvero il rapporto tra la soddisfazione e la sua stessa finitezza, e la sua stessa “vanità”, come la definisce il filosofo francese. Ma ancora di più, come si vedrà alla fine, la questione di come possa avvenire la soddisfazione tra due soggetti all’interno della pratica dell’amore.

La soddisfazione è la nostra massima questione, la nostra massima tensione ma nello steso tempo se noi poniamo questa questione come “imprescindibile” nella nostra esistenza, compiamo una azione che si ritorce contro di noi in quanto diventa obbligo e coercizione.

Più avanti lo stesso Pascal, parlando del senso della nostra vita su questo mondo afferma che “mi trovo incatenato a un angolo di questa infinita distesa”. Il nostro vivere è un non sapere e nello stesso tempo tutto ciò che noi ricerchiamo con il nostro sapere è poi alla fine perdibile (e perso) attraverso la morte. E su questo noi tutti siamo d’accordo.

L’uomo dunque vive la propria vita da incatenato, come Prometeo. Incatenato tra il suo desiderio di soddisfazione e la mancanza di stabilità della soddisfazione stessa. Sembra, in altre parole, che ci sia bisogno di un collante tra le soddisfazioni che la vita ci riserva, e che noi raggiungiamo nella vita, e il Tempo. Sembra che noi facciamo fatica a vedere nel tempo la soddisfazione, come se avessimo tra la mani un sapone o un pesce che ci sfugge, proprio perché vorremmo che essa “durasse” come esperienza e anche come pensiero. Facciamo fatica perché del Tempo vorremmo affrettarne il corso come fossimo suoi padroni e dunque “spingiamo” verso la soddisfazione quasi aizzati da un moto compulsivo.

La soddisfazione sta invece in uno Spazio che noi potremmo intendere come “certezza della vincita e certezza della perdita”,. Apparentemente sembra uno Spazio incongruente, concettualmente un “non luogo”, ma in effetti, a ben vedere, è proprio in questo ambito che la soddisfazione è tangibile.

La soddisfazione è il massimo della contraddizione, non tanto perché è vivibile e nello stesso tempo perdibile, ma in quanto di essa noi facciamo fatica a dare una “definizione”. Definire la soddisfazione sembra essere il compito massimo della nostra esistenza.

Leggo un libro, guardo un film, pranzo con piacere, sto bene assieme ad un’altra persona, etc. tutto ciò non serve perché io possa dire che sto provando soddisfazione. La realtà non mi offre la soddisfazione su di un piatto. E’ necessario che io esprima un Giudizio sulla bontà del piatto che sto assaggiando, e questo giudizio travalica tutti i dati oggettivi, pur partendo da essi.

Pascal afferma che “Noi non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca delle cose”. E questa riflessione può esserci di aiuto nell’intendere il Giudizio: esso è come uno specchio che si volge verso di noi e pone la soddisfazione nel percorso, nel viaggio, nel tentativo, nella ricerca delle cose (leggasi oggetto).

E’ un passaggio importante questo perché pone l’indice sul reale moto che sta alla base della soddisfazione: che uno si guardi, che uno si osservi e anche che uno si ami nel momento in cui vive una certa esperienza che proprio per questo sarà soddisfazione.

Allora la definizione di soddisfazione diviene il Giudizio (osservazione di se stessi) che uno dà nel momento in cui prova una certa esperienza. La definizione di soddisfazione non sta fuori ma sta dentro all’individuo e proprio per questo lo nobilita. La nobiltà dell’uomo e la sua differenza dagli altri animali sta nel fatto che egli “sa dire se stesso” (ovvero si definisce) nel momento in cui prova una determinata esperienza, che proprio per questo diviene soddisfazione. “”L’uomo infatti – afferma ancora Pascal – fa da solo una conversazione interiore che è molto importante regolare bene”.

E’ questo lo specchio (non narcisistico) che fa dell’uomo un soggetto pensante se stesso (dunque dentro la propria solitudine): l’uomo fa i conti con se stesso e solo con se stesso quando esprime giudizio. Non può essere fuorviato dal pensiero o dal giudizio dell’altro: a sancire la propria soddisfazione (se il libro è bello, se il film è piacevole, se la persona con cui sta è amabile, etc.) è il soggetto e solo il soggetto che in tutti i sensi si assume la responsabilità per il suo atto. Non a caso la vita soddisfacente è comporta da atti e non da esperienze.

Ma questa soddisfazione, come affermava Pascal all’inizio, non è né veritiera né solida. E qui non possiamo che essere d’accordo con il filosofo. Ma proprio perché nemmeno il soggetto è veritiero e solido, proprio perché noi siamo contraddittori che in qualche modo possiamo provare soddisfazione. Perché la leghiamo al nostro giudizio che non può essere un Giudizio Universale ma è un giudizio soggettivo, che vive di vita breve, ma che è frutto della attività pensante del soggetto. E noi siamo il nostro pensiero, noi siamo la capacità di trasformarlo in giudizio, cioè atto che afferma che una certa esperienza è soddisfazione oppure no.

Il problema dell’uomo è che non si accontenta di vivere la propria vita, ma vorrebbe vivere anche una vita immaginaria, o la vita degli altri: questo ci allontana dalla soddisfazione perché ci allontana dal giudizio. Da nessun paragone ne esce una soddisfazione, proprio perché la regola del giudizio del soggetto su se stesso viene rimossa o trasgredita. Non è guardando l’altro che io mi faccio un pensiero sulle mie capacità, ma è “chiudendomi” in me stesso che io posso capire il mio limite e dunque il capo reale dove io posso sperimentare la soddisfazione. E questo chiudermi in me stesso sarà poi l’atto che mi apre all’altro. Realmente. Nell’atto dell’amore.

E qui avviene il passaggio: dopo la chiusura in me stesso che mi permette il giudizio di soddisfazione (che è pur sempre un atto di amore per se stessi), io posso amare l’altro.

L’altro è amabile in quanto io sono un portatore nei suoi confronti di un mio giudizio di soddisfazione. L’altro io lo posso amare solo nel momento in cui sono capace di formulare un giudizio di soddisfazione che proviene da un mio lavoro privato. Privato proprio perché ha a che fare con l’amore che io nutro per me stesso. Si potrebbe quasi dire che amare se stessi ha a che fare con la capacità di esprimere giudizio sui propri atti, ha a che fare con la indipendenza della propria scelta, ha a che fare con l’accento che io saprò porre sul riflesso che il mio pensiero ha in me.

L’altro è garantito nell’amore dal fatto che io sappia esprimere giudizi in merito alla soddisfazione; io amo l’altro nel momento in cui so arrangiarmi per conto mio su quello che mi piace o meno. E’ questa una delle prerogative fondamentali dell’amore: la privatezza del giudizio: ognuno sta al suo posto in merito al giudizio e l’amore avviene nel momento in cui i due posti si sovrappongono, ma nella libertà di ognuno, nella attualità di ognuno.

“La nostra natura è nel movimento; – predica Pascal – il riposo totale è la morte”. Il movimento è l’amore stesso, l’atto che avvicina due persone e ne costituisce una regola, una legge comune, una comunione. La soddisfazione avviene nella comunione di due soggetti che sono competenti sulla loro capacità di amare.

E non potrebbe che essere così: il movimento è l’atto di giudizio attraverso il quale noi chiamiamo l’altro alla spartizione, alla comunione. Ma, ripeto, non senza prima avere lavorato dentro alla nostra individualità come atto di fortificazione, sia per noi stessi sia per l’altro che diverrà l’altro del nostro amore. Certo che la morte ci minaccia in ogni istante, e la sua massima prerogativa è la necessità. Ma anche la massima prerogativa del soggetto è il percorso della soddisfazione. L’atto del giudizio in merito alla soddisfazione come offerta o come dono da portare all’altro dell’amore. E’ qui, se si vuole la contraddizione: l’incontro tra due necessità: quella della vita e quella della morte. Perché la necessità della vita è vivere, e la vita non può che essere soddisfazione del soggetto e del soggetto con l’altro.

Pascal scrive ancora: “Come è difficile sottoporre una cosa al giudizio di un altro, senza influenzare il suo giudizio con il modo stesso di sottoporgliela”. Ma qui non stiamo nella regola dell’amore se io penso che il mio giudizio possa determinare (influenzare) l’altro. In amore invece io devo essere sorretto dal pensiero che l’altro è “libero” di fronte al mio giudizio: ovvero che il mio giudizio è frutto del mio pensiero per arrivare alla soddisfazione, che diventerà reciproca proprio in virtù di questa libertà.

Guido Savio