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L’UOMO AMABILE

Riflessioni sulla capacità di amare ed essere amati

Amare se stessi e amare gli altri

Tutti noi, tutti noi presi dall’amicizia, dalla paternità, dalla maternità, dall’essere figli, dalla fratellanza, o dall’Eros “verifichiamo” un bisogno insopprimibile che gli altri si interessino a noi, che gli altri si avvicinino a noi con il loro pensiero, e soprattutto con il loro sentimento: non possiamo fare a meno dell’altro . E noi che ci interessiamo degli altri anche – ma si spera non soprattutto- per questo, tutti noi verifichiamo nella nostra esistenza che, come dice Freud, l’altro è irrinunciabile.

Ma quando noi ci avviciniamo all’altro nascono domande: la prima è … prima veniamo noi stessi o prima viene l’altro nel nostro atto d’amore o di affetto. La seconda domanda è se dobbiamo amare soprattutto gli altri prima ancora di noi stessi. E tutto questo sembra un dissidio, una incongruenza. Mentre invece la risposta, la terza, in fin dei conti semplice, è che per poter amare gli altri dobbiamo amare prima di tutto noi stessi:

e qui incomincia la difficoltà della questione. Amare noi stessi significa compiere un atto di giudizio, di fede ma soprattutto di rischio verso noi stessi. Ovvero: siamo poi così sicuri di meritare lo stesso amore che noi abbiamo per la nostra persona?

Certo che per amare gli altri bisogna prima sapere amare noi stessi, ma è proprio qui dove cade il precetto evangelico “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Non è affatto scontato che noi amiamo noi stessi. Anzi. L’atto d’amore per noi stessi è legato a tutta la nostra storia, a come siamo stati abituati all’amore o come da esso siamo stati tenuti lontani. Chi è sicuro di amare se stesso?

Ama te stesso non può essere inteso come un imperativo ma certo come un viatico per avere charitas e agapè con l’altro: non ci possiamo dare come scatole vuote, vuote dal nostro giudizio. Il nostro giudizio su di noi è sovrano e non può che recitare l’assioma: io sono amabile e sono stato amato, dunque mi autorizzo ad amare.

Si parte da qui e diversamente non si potrebbe partire. Da qui in quanto noi moderni abbiamo imparato che il valore di una vita dipende esclusivamente dalla volontà di viverla, e che il valore dell’amore non è diverso: va vissuto in quanto voluto. Voluto all’interno della nostra debolezza e della nostra deficienza, che hanno una parte inestimabile nella formazione della nostra identità: non potremmo vivere infatti senza l’addestramento, la palestra ad essere umili e fragili.

Dalla nostra debolezza amare un altro significa desiderare il suo bene. Desiderare ciò che è veramente buono per lui (non per noi). E questo amore deve basarsi sulla verità. Ora dire in che cosa consista la verità sta fuori dalle nostre competenze, ma non dalle nostre aspirazioni. Noi siamo aspiranti alla verità in quanto abbiamo il pensiero di poter amare l’altro nella sua stessa dimensione di verità: che non sarà mai la nostra. Verità è viaggio e mai meta.

Ma noi siamo anche egoisti . E chi ama troppo se stesso è incapace davvero di amare qualcun altro, se stesso compreso. E’ questo il dramma dell’uomo moderno. Amo chi gli altri amano?: non amando gli altri non siamo neppure capaci di amare noi stessi e allora si va alla ricerca dei cosiddetti “godimenti forzati”, quello che offre il mercato (amo chi ama l’altro, la massa, la moltitudine, ma questo non è amore). Il mercato è il contrario della festa.

La logica del “convivium” è quella della festa. Festa in cui ognuno si nutre servendo gli altri piuttosto che cibando se stesso. Il rapporto d’amore è come un banchetto, in cui la regola è la prudenza: quella di avere la giusta misura tra l’amore per noi stessi e l’amore per gli altri. Arrivando alla soddisfazione entrambi.

Vita e speranza

Se noi poniamo la nostra prospettiva di vita solo sulle cose visibili corriamo il rischio di andare incontro alla disperazione. Una vita, al limite, senza problemi, può essere più letteralmente “disperante” di una che sta sempre sull’orlo della disperazione.

Con troppa facilità noi crediamo di essere il nostro “vero io” e che dunque le nostre scelte abbiano a che fare con il principio di realtà. Mentre molto più spesso ci accorgiamo che il nostro io ci scappa tra le mani come sabbia sulla spiaggia. D’altra parte un eccessivo esame di noi stessi ci porta a prestare eccessiva importanza (ansiosa e anche angosciosa) a movimenti del nostro corpo e del nostro animo che in realtà dovrebbero rimanere istintivi e anche inascoltati. Quando badiamo troppo a noi stessi, la nostra attività si inceppa e si paralizza e ce ne sfugge il controllo. Corpo, non mente.

Il “nostro vero io” può essere una illusione se noi lo sentiamo come possesso, ma può diventare un punto di partenza se noi lo intendiamo come mancanza da riempire. Come afferma Cacciari siamo dei “da”, proveniamo da qualche parte che noi stessi dobbiamo nominare. In questo senso dovremmo smettere di prendere tanto sul serio i nostri progetti e le nostre decisioni coscienti. Spesso la parte di irrazionalità che è in noi è la padrona delle nostre decisioni. E l’amore è il campo di massima verificabilità di questo asserzione.

La salute del distacco

Allora la precarietà del nostro io ci porta ad un passo: quello del distacco: dobbiamo saperci staccare dal nostre stesso io per entrare in un mondo più grande, per entrare nell’universo: siamo una parte del tutto, e nulla più: Quando amiamo, e siamo in due ad amare, siamo due parti di un tutto che comprende l’universo dell’alterità. Siamo semplici segni, eppure la nostra presunzione ci spinge a cercarci come simboli indelebili. Siamo parti ed invece siamo portati al pensiero del tutto. Il pensiero del tutto è un pensiero dannato che porta alla angoscia e alla disperazione. Siamo meno di quello che pensiamo. Staccarci dal nostro steso Io significa, alla fin fine amarlo di più e renderlo più amabile dall’altro, e renderlo più capace di amare l’altro: meno io penso a me, più l’altro mi vede libero di essere amato (e di amarmi).

Noi non siamo mai abbastanza per noi stessi. Noi non siamo mai abbastanza attivi, secondo il nostro pensiero, e dunque mai abbastanza capaci: mentre sappiamo che meno tanto più un soggetto è incline al “fare” tanto meno è capace di “essere. Nell’amore vorremmo essere “homo faber” senza pensare al nostro semplice “essere”, che invece è la parte di noi stessi che l’altro coglie meglio, con maggiore facilità, con maggiore semplicità, con maggiore amore. La nostra vita non diventa più ricca se facciamo di più, vediamo di più, gustiamo di più e facciamo esperienze più ricche che nel passato. Al contrario alcuni scopriranno che avranno di più, avranno una vita più piena, solo quando avranno il coraggio di fare, di vedere, di gustare, di sperimentare il meno del solito. Il valore della nostra attività dipende quasi esclusivamente dalla umiltà con la quale ci accettiamo come siamo: e questa è la distanza e la indipendenza, il distacco in amore: essere quello che si è senza spingere il pedale del fare per dimostrare.

Noi non sappiamo chi siamo e perché ci crediamo tali: non sappiamo neppure “chi” o “che cosa” vogliamo diventare. Ma sta di fatto che chi si contenta di quello che ha e accetta il fatto incontestabile di mancare di molte cose nella vita, è assai più ricco di uno che ha molto di più ma si angustia per tutto quello che eventualmente potrebbe mancare.

In amore facciamo fatica a capire il nostro “essere pieni” (dall’altro) e ci abbandoniamo più frequentemente al vuoto, alla assenza, nostra e dell’altro.

Ma per capire questo noi dobbiamo conoscere la nostra debolezza: per poter percepire anche un nuovo ordine di azione dobbiamo intendere che non possiamo vivere al massimo della intensità: la felicità non è questione di intensità, ma di equilibrio, ordine, ritmo e armonia. E la nostra felicità è la dote che noi offriamo all’altro. Della nostra sofferenza, d’altra parte, l’altro se ne accorgerà senza che noi facciamo tante prole. Non dobbiamo deformare la nostra vita per riempirla in ogni minimo spazio di azione e di esperienza.

E sappiamo che la “felicità” nella vita consiste nel trovare quale sia proprio “l’unica cosa necessaria” della nostra vita e nel lasciare con gioia tutto il resto. Perdita è felicità. Perdere tutto il resto in funzione dell’altro: questa è la felicità.

Amo l’altro reale

Nessuno può chiedere a qualcuno di amare l’altro puramente in nome di una astrazione: “la società”, “il dovere”, “la razza umana”, “il bene comune”, se aspettiamo che certe persone ci diventino gradite o attraenti prima di cominciare ad amarle, non cominceremo mai. Questo perché? Perché si ama l’altro in quanto tale e in quanto reale, non come appartenente ad una “classe”, anche se noi sappiamo che quando amiamo un altro, ciò significa che saremmo in possibilità di amare tutto il mondo: l’altro amato è solo un rappresentante del mondo amabile (da noi). E d’altra parte molte persone non rivelano nulla del bene che hanno per noi, lo tengono nascosto, fino a che noi non lo sveliamo. Il fatto che gli uomini parlino in continuità sta a significare che sono alla ricerca di una verità e che dipendono dalla risposta dell’altro per intendere se questa sia verità o meno. Identificazione? Proiezione? Sono categorie psicologiche che vanno a dire che noi cerchiamo la verità nell’altro.

E in amore, dicendo di identificazione e proiezione, che sono la due categorie più frequentate: l’idea che tu hai di me è fabbricata con il materiale che hai preso a prestito dagli altri e da te stesso. Quello che tu pensi di me dipende da quello che tu pensi di te. Forse tu crei l’idea che hai di me con il materiale che ti piacerebbe eliminare dalla idea che hai di te stesso. Forse l’idea che hai di me è un riflesso di quello che gli altri pensano di te. O forse quello che tu pensi di me è semplicemente quello che credi che io pensi di te…… potrebbe essere una ridda l’azione di andata e ritorno che avviane quando io amo un’altra persona, ma la comprensione che ne ho è sempre velata dal fatto che non posso fare a meno di vedermi riflesso in te.

Ma è qui la salute. Vedere. Vedere significa vedere l’altro che mi sta davanti e poi fare i miei pensieri. Ma l’altro è l’altro. Diverso. Non-Io. In quanto tale amabile. Senza paura in quanto il timore è il peggiore nemico del candore. E il candore è quell’essere se stesi di cui andiamo dicendo.

Sincerita’ dell’amore

E la sincerità del nostro amore dipende dalla capacità di crederci noi stessi amati. La maggior parte dei complessi morali, mentali, e persino religiosi del nostro tempo risalgono alla terribile paura di non essere mai stati amati veramente da qualcuno. Sarebbe terribile supporre che gli altri ricevano quel genere di stima che desideriamo per noi e agiamo in base all’assunto che siccome non siamo amabili così come siamo, dobbiamo divenirlo sotto un falso titolo, come se dovessimo essere qualche cosa di meglio di quello che in realtà siamo: un paradosso.

Raccoglimento

Prima di tutto dobbiamo essere presenti a noi stessi. Meglio: dobbiamo saperci raccogliere in noi stessi e “centrarci”. La centratura significa che per amare è necessario avere un pensiero di autoriferimento. Meglio: il pensiero di autoriferimento è l’unico pensiero che ti fa parlare con te stesso e dunque ti fa parlare con l’altro (dell’amore). Parlare con se stessi significa darsi da se stessi il senso delle proprie cose. Parlare con se stessi significa attribuirsi la responsabilità del fare e del pensare (non nel senso del codice penale ma in quello del codice civile). Ovvero parlare con se stessi significa istituire quella prima alterità Io/Tu che poi porterà a tutte le altre relazioni. Noi siamo in ralazione (d’amore) con l’altro, perché prima siamo in relazione con noi stessi.

Raccogliersi allora non è l’atto del bambino che diventa feto, ma è l’atto del soggetto maturo che si confronta con se stesso per poi avere spazio (e distanza) con l’altro.

Il raccoglimento è quasi la stessa cosa che la solitudine interiore. In esso scopriamo la solitudine limitata del nostro cuore e nello stesso tempo la solitudine illimitata del cuore dell’altro, La differenza della limitatezza sta nel fatto che della prima c’è conoscenza e della seconda (quella dell’altro) non c’è.

Solitudine

Chi ha paura di essere solo non sarà altro che un limitato, un isolato, per quante siano le persone di cui si circonda. Ma chi impara nella solitudine e nel raccoglimento a non turbarsi del proprio isolamento, e a preferire la sua realtà alla illusione di una relazione puramente forzata, compie quel lavoro di cui si parlava prima del “centrarsi su se stesso”.

E d’altra parte violano la solitudine solo quelli che amano. Il vero amore penetra i segreti e la solitudine dell’amato permettendogli di mantenere i suoi segreti e di rimanere della sua solitudine. Una persona è tale in quanto possiede un segreto ed è una solitudine tutta sua che non può venire comunicata a nessun altro. Se amerò una persona, amerò quella che di essa fa una persona: la segretezza, il nascondimento e la solitudine del suo essere unico e irripetibile: originale e irripetibile. E la nostra cera solitudine la cogliamo nella umiltà che solo in questo modo diviene infinitamente ricca. Allora l’altro ci cerca. Allora l’altro ci ama.

Guido Savio