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IL VOLERE DELL’EMOZIONE (PARTE SECONDA)

LA DOMANDA D’AMORE

La facilita’ (del vivere)

Il concetto di facilità si rifà direttamente a quello di “facibilità” (tramite lo strumento del pensiero), ovvero “ciò che può essere fatto” “ciò che si può fare. Il succedere del fare sta nelle mie facoltà di produrre. E produrre, lo sappiamo, è sempre produrre con un altro, all’interno della relazione. Ricordo qui i due pensieri di Leopardi, sul Rabbino e sulla Scimmia in cui il poeta di Recanati affermava, ribadiva con forza, la difficoltà di amare il proprio simile. E più il simile è simile, maggiormente noi ci teniamo alla larga. La libertà in amore richiede per appunto spazio, distanza, lontananza e anche distacco. Lo stesso discorso lo fa Dostoevskij in due brani formidabili dei “Fratelli Karamazov”. (“La Confessione” e “Il Grande Inquisitore”).

Allora in “Destini personali – L’età della colonizzazione delle coscienze”, citando Simmel, Bodei parla del viso, che non è il viso di Dostoewskij, che per essere amato deve sparire, ma dice del viso come specchio dell’amore. Bodei parla della “legge individuale” in Simmel, che si è opposta ad una legge universale kantiana e denuncia il fallimento dell’imperativo categorico come agente che possa regolare il rapporto. Simmel propone dunque la “legge individuale”, un partire dal basso anzichè partire dall’alto. Una legge della libertà. “Questa (la “legge individuale”) ha la sua icona nel volto inconfondibile di ognuno, il luogo simbolico più espressivo che si conosca, dotato di sfumature che possono moltiplicarsi all’infinito e in cui i più piccoli movimenti riescono a modificare il tutto”. 13

Pensiamo a quella che è la superficie fisica che noi “vediamo” nel corso di tutta la nostra giornata. Potremmo dire chilometri e chilometri quadrati. Eppure il luogo di maggiore concentrazione delle nostre emozioni, delle nostre aspettative, del nostro desiderio è il volto umano dell’altro, che occuperà sì o no trenta centimetri quadrati. Forse questa può essere una riflessione scontata e banale ma rende bene il “valore” dell’incontro nella relazione tra i volti. Dove anche un minimo particolare che muta riesce a cambiare la connotazione e la denotazione dell’insieme stesso. Il volto dell’altro per davvero mi cambia la vita.

Adesso Bodei cita direttamente Simmel: “Non c’è nel mondo visibile, alcuna struttura che, come il volto umano, riesca a convogliare una così grande quantità di forme e di superfici in una così incondizionata unità di senso”. 14 Incondizionata significa … alla quale non possono venire poste condizioni. Il viso dell’altro in amore è incondizionato, nel senso che non segue le mie condizioni, e se una sola delle condizioni cambia in un particolare, io stesso devo riposizionare il mio desiderio, ridisegnare la mia volontà, forse riscrivere il mio progetto. La novità portata dall’altro altro non è che un sorriso inaspettato, o un corrucciare le ciglia in un altro. E da questo apparentemente insignificanti segni il battito del nostro cuore varia di intensità, i nostri pensieri si illuminano o si rabbuiano. Ed è questa la questione della libertà in amore: l’altro è libero di sorridere o corrucciare. Libertà in amore significa prima di tutto… “libero da me”. E’ fin troppo facile sponsorizzare la libertà dell’altro quando riguarda agenzie, situazioni, storie, relazioni, passato, legami esterni. Il bello è quando l’altro si libera da noi. Lì noi siamo chiamati alla maggiore difficoltà in amore. L’altro che si stacca per essere amato. L’altro che si allontana per tenere vivo il rapporto.

Adesso continua Bodei: “Un corrugamento della fronte, un arcuarsi delle sopracciglia, un impercettibile contrarsi delle labbra, un allentarsi delle mandibole: tutto è significativo secondo una ermeneutica che abbiamo appreso sin dall’infanzia, prima ancora del linguaggio parlato”.

Come dire che l’amore è la realtà mobile dell’altro, non la scomparsa dei segni dell’altro che mi ricacciano in una logica speculare per cui io, se amo, amo l’amore, o amo me stesso amante, o amo il vuoto, la vanità di Qohelet.

Vivere è questo. Vivere e basta. Tutto quello che è vivere è vivere. Tutto ciò che avviene ha motivo di avvenire e dentro questo avvenire noi siamo chiamati a percorrere la nostra strada. Non un’altra ma quella lì.

Io l’Io, anche in tutte le sue implicazioni filosofiche, lo chiamerei “vivere” e basta. Roberta De monticelli scrive nel libro dal titolo “L’ordine del cuore – Etica e teoria del sentire”. “Il sentire è tutto ciò che si vive. Il vivere assume la misura del penare o del provare piacere: ha cioè valenza più o meno positiva, precisamente in quanto percezione di valori positivi o negativi”.15 Nel sentire ci sta dentro tutto: piacere e dolore e tutte le gamme dei sentimenti, delle passioni, degli affetti che stanno tra queste due parole. Come va, va. Vivere è pensiero di diritto al piacere. Come piacere come diritto. Come fondazione del soggetto nel momento in cui egli si coglie vivente per essere amato dall’altro. Amato dall’altro che così facendo sancisce e fonda la sua individualità, nella sua, come la chiama la De Monticelli, “haecceitas”. Sentire è sentirsi, riconoscere la propria identità.

La unicità va a pari passo con la esistenza. In questo senso la libertà. Libertà di essere unici. Altrimenti non si è. Questione squisitamente ontologica. Libertà di amare e di essere amati. Non la logica di Giovanni il Misericordioso nell’episodio dei Fratelli Karamazov: amare perché senza non si può stare, amare per ordine divino e ricatto perverso. Amare perché si è in grado di domandare. La domanda è la nostra proposta di libertà in amore, lo abbiamo visto in più di una occasione. Fare la domanda significa porsi nella disponibilità della accettazione della differenza. La domanda sancisce la differenza sessuale. I sessi sono due perché è possibile la domanda. Non garantisce nulla il dovere o la funzione.

Simone Weil parla di “timone” che entra nell’altro all’interno della relazione d’amore. Il timone entra nell’altro assieme alla “attenzione”. Il timone guida assieme alla tenerezza. Mi va bene entrare nell’altro ma mi va bene anche che l’altro mi faccia la domanda di entrarlo. Mi va bene avere guardato il volto dell’altro prima di penetrarlo con il mio desiderio, prima di usare la mia attenzione nei confronti dei suoi occhi o delle sue rughe. Realisticamente la spiritualità passa attraverso il viso, gli occhi che danno il “placet”, la libertà che è data dalla rinuncia a qualsiasi posizione o ruolo o filosofia o teoria o astrazione che mi dice: “Tu devi fare il bene”.

Nietzsche scrive: “L’io è una pluralità dentro alla quale non è necessario porre una unità. Basta pensarla come una reggenza o una molteplicità di spiriti in lotta, simile in questo agli animali marini, ai delfini dei miti – per trasportare l’Io sul loro dorso. Anche la coscienza dunque, al pari del corpo, è opaca a se stessa, perché sorretta nel suo movimento da quel delfino che è il corpo”. 16 Va benissimo il pensiero mitologico e poetico di Nietzsche, ma d’altra parte va bene anche la istanza di unità e di chiusura che anima il nostro stesso movimento. Anche se vivessimo costantemente, come afferma lo stesso Nietzsche, in una immagine alla William Blacke, aggrappati al dorso di una tigre.

Il vivere che abbiamo visto come membrana, pelle, che ci contiene all’interno della nostra soggettività, avviene solo all’interno dell’amore. Vivere è solo vivere l’amore. Il viso è il segno della unicità dell’altro.

Continua la De Monticelli: “Non avvertirò ad esempio la tua “collera”, ma la “tua” collera. Non percepirò che provi imbarazzo, ma vedrò il mondo in una sfumatura in qualche modo a te simile dell’imbarazzo in cui la tua delicatezza ti induce”. 16 Non vedo in te la generalità del sentimento, la universalità della parola, me vedo in te la specificità del sentimento, che in quanto vissuto da te diviene unico e irripetibile. Ti fonda, ti costituisce, ti fa individuo. Non vedo la passione, non vedo l’amore, non vedo l’odio ma vedo il passionale, l’amante, l’odiante. Non esiste la stratificazione o la universalizzazione del sentimento a cui io poi attingo nel momento in cui vivo tale sentimento. No. La marca del sentimento la determino io al momento. La cifra della passione la stampo io quando mi sento chiamato a viverla.

“Nel primo caso – continua la De Monticelli – , sulla base dell’esperienza, ci rendiamo conto che non esistono, propriamente, vissuti di una persona che non siano anzitutto vissuti-di-quella-persona. Non esiste “la” gioia, o meglio, “la” gioia non è che la struttura invariante dello stato d’animo che esiste, “la mia o la tua o la sua” gioia inconfondibilmente tinta del colore delle nostre individualità”. 17Conclude il passaggio la De Monticelli.

L’amore è l’unicità nostra, non la teoria dell’amore. Esisto solo io amante nella mia “unicità” (egoismo matuto). Certo che il sentire è una cosa diversa per ciascuno di noi. Come il vivere è un dato irripetibile e a volte anche incomunicabile tra di noi. Esiste un nesso essenziale tra “unicità” e “preziosità”. Il pensiero di unicità va oltre la vita. Il mio pensiero di essere un individuo oltre che prezioso, unico, mi porta oltre la morte: e non siamo all’interno di una illusione foscoliana. Questo pensiero mi porta, mi guida. Non è un pensiero di onnipotenza ma di potenza. Potere. La nostra vita è il potere del futuro: avere questo pensiero è garanzia di salvezza.

E la asserzione della De Monticelli: “L’amore è la sola donazione originaria e piena di una individualità come tale”. 18Non può che rimandare al dono come atto di partenza del sentimento dell’amore. Il dono, in amore, è sempre donare un “in più”, non una dotazione integrata, ma qualcosa che va “oltre”. Il dono non è una compensazione della mancanza dell’altro. Il dono non è la lista nozze. Il dono è un in più che io do all’altro proprio perché “in più”, non per me ma per lui. L’uso di regalare le cosiddette “cose utili” snatura l’essenza del dono. <br<
“Ti dico che per l’uomo non c’è assillo più tormentoso di quello di trovare qualcuno al quale trasmettere al più presto quel dono della libertà con il quale il disgraziato essere viene al mondo”.

La libertà è originariamente paritaria nel rapporto. Poi io posso decidere di demandare o di sottomettere la mia libertà all’altro, ma questo ha a che fare con il variare del contratto di rapporto, con il variare delle condizioni della relazione in corso d’opera. Ma in origine il rapporto è libero, dunque non perverso.

“Giacchè il segreto dell’esistenza umana – scrive Marco Aurelio – non è vivere per vivere, ma avere qualcosa per cui vivere”. Alla parola “qualcosa” si potrebbe sostituire la parola “qualcuno”. E allora avremmo qui la frase della uscita dalla perversione.

La domanda di amore

Questo vivere l’amore con l’altro da una partenza di libertà comporta la logica della domanda. Quando io rivolgo una domanda all’altro, questi non ce l’ha già dentro la sua mente la risposta pronta, non ha un repertorio di risposte pronte essere tirate fuori, ma la confeziona al momento, la rende in base al soggetto che chiede, al volto che ha, alla pelle che si lascia vedere. Non c’è in noi un repertorio di risposte. Le risposte nascono nel tempo della relazione. Guai a programmarle. A pensare di avere un punto fisso dentro di noi al quale l’altro deve andare ad appoggiarsi: lo guideremmo dove vegliamo noi e non dove chiede lui. La mia domanda all’altro mette in moto l’altro a farsi la sua risposta. La mia domanda diviene una occasione per l’altro di attivarsi, di funzionare, ancora una volta di essere vivo. La domanda all’altro non è quella del commercio in cui io “scelgo” un determinato oggetto. La mia domanda nella relazione prevede una risposta che io non posso scegliere e che nemmeno conosco.

Comprende altresì la mia disponibilità a ricevere dall’altro una domanda che addirittura mi spiazzi. La risposta non “c’è già”, non esiste in natura, ma si fa strada facendo. Io sono rapporto.

Il pensiero è “pensiero di pensiero” (è l’anima che il pensiero conversa con sé ).

“Senza dubbio, quando Platone affermò nel ‘Sofista’ che l’anima del pensiero conversa con se stessa, o, come piuttosto suppongo, discute con se stessa – scrive Ryle – , stava esaminando ciò che lui stesso faceva o doveva fare, quando da vicino affrontava i problemi filosofici”.19 P. 55 (…) “Pensare è ‘dire cose a noi stessi’”21. Dire cose a noi stessi per averne in un certo qual senso un controllo se non addirittura un dominio. Dire cose a noi stessi per preparare le cose da dire all’altro, magari con il medesimo scopo. Come esplicita Nietzsche:

“L’intero apparato conoscitivo è un apparato di astrazione e semplificazione – non diretto alla conoscenza della cose, bensì al ‘dominio’ delle cose” 22 (F. Nietzsche, Frammenti postumi estate-autunno 1884, 26

E la tensione nostra nella relazione, per non dire la patologia, si articola sempre sotto la voce del controllo, anzi, come afferma Dewey, nella pretesa della anticipazione: l’illusione del vedere prima l’altro, del poterlo in qualche maniera programmare mentre si sa che l’altro semmai è incontrabile ma non programmabile.

“La riflessione è un tentativo di scoprire – scrive Dewey – come sarebbero in realtà le varie linee di possibilità dell’azione; è un esperimento che consiste nell’istituire varie combinazioni di elementi scelti dalle abitudini e dagli impulsi per vedere come sarebbe l’azione risultante se venisse intrapresa. Ma la prova è fatta con l’immaginazione, non manifestamente nella realtà”. 23J. Dewey, Natura e condotta dell’uomo.

Mentre poi quella che potrebbe essere intesa come la nostra verità interna sta nel sentire del nostro corpo, come affermava prima la De Monticelli e come afferma ora Nietzsche:

“Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. E chissà a quale scopo per il tuo corpo è necessaria propria la tua migliore saggezza (…) Il corpo infatti è una grande ragione (…) e strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami ‘spirito’, un piccolo strumento e un giocattolo della tua grande ragione”. 24.

Fino a spingere il pensiero a intendere la Psiche, nel senso di Anima, come effetto del moto del corpo, come già scriveva Cicerone:

“…. È stata ultimamente sostenuta da Aristosseno, musico e nello stesso tempo filosofo, la definizione dell’anima come una specie di tensione del corpo stesso, del tipo di quelli che nel canto e nella tecnica della lira i Greci chiamano ‘armonia’: da tutto il corpo, nella sua natura e conformazione, procede una varietà di vibrazioni simili alle note del canto. Egli non sapeva distaccarsi dalla sua arte e tuttavia ha dato una interpretazione che sostanzialmente molto tempo prima era stata proposta e ben precisata da Platone”. 25 (Cicerone, Tusculane)

Ed è poi la parola l’ultima appendice che mette il nostro contenuto del sentire dell’anima nelle mani dell’altro della relazione. E non a caso parla di “emozione” come del luogo della veicolazione della comunicazione tra soggetto e altro:

“Dapprima le immagini – spiegare come le immagini sorgono nello spirito. Poi le parole, applicate alle immagini – scrive Nietzsche – . Da ultimo i concetti, possibili solo se ci sono parole – riassumere molte immagini in una cosa che non si può vedere ma che si può udire (la parola). Quella piccola emozione che sorge con la parola, ossia la visione delle immagini simili per cui esiste una parola sola – questa debole emozione è il tratto comune, la base del concetto” 26

Pensare allora è sempre parlare a se stessi, s-coprire la propria identità all’altro ma anche la propria alienazione, la propria incapacità o difficoltà di relazionarci con il mondo, fino a pervenire al pensiero , fino alla anestesia del pensiero che pensa che nulla esista in questo mondo, come ci viene a dire Severino: (ma potremmo anche interrogare Peer Gynt e Qoelet)

“Ma il mondo è la alienazione estrema – scrive Severino -, è cioè l’infinitamente distante da ciò che in verità è. Il ‘mondo’ non è; è il contenuto di una volontà destinata a rimanere intenzione. Ma per l’Occidente questo contenuto è diventata l’unica realtà e l’unica evidenza. (E anche Cristo ‘è venuto al mondo”). L’alienazione estrema è divenuta l’unica realtà, non nel senso che la volontà di potenza riesca a far sì’ che l’ente non sia, ma nel senso che ormai tutto che viene pensato e operato nella civiltà occidentale è ciò che si pensa e che si opera in relazione alla persuasione nascosta ma dominante che l’ente non sia, cioè sia un niente. La struttura economica, politica, sociale, ideologica della storia occidentale è ciò che essa è, appunto in quanto sta in relazione con questa persuasione”.

La salute del rapporto ha solamente a che fare con il fatto che ci sia “imputazione”. Ovvero che entrambe le persone del rapporto sappiano assumere responsabilità (sappiano rispondere delle proprie parole e delle proprie azioni in riferimento alle domande che sono state poste), che sappiano occupare ora il posto di soggetto e ora il posto di altro a seconda della domanda e della situazione contingente. In sostanza la salute del rapporto ha a che fare con una regola che recita che chi è imputabile è amabile e chi è amabile è imputabile. Noi amiamo solo colui verso il quale possiamo dirigere un giudizio. E che l’altro lo sappia accogliere. Concetto questo già incontrato in altre occasioni ma che qui riproponiamo come introduttivo alla tesi di Hans Kerlsen.

Il pensiero formula leggi:

“Il principio di causalità – scrive Kelsen – dice, se è A, è (ovvero sarà) anche B. Il principio di imputazione dice che se è A, deve essere B.” (…) “La differenza tra causalità e imputazione consiste nel fatto che il rapporto tra condizione (considerata come causa) e conseguenza (considerata come effetto), affermato dalla legge naturale, non è sancito da una norma prodotta da uomini – come nel rapporto tra condizione e conseguenza descritto da una legge morale o giuridica – ma è indipendente da ogni influenza di questo tipo”. (…) Con imputazione si intende un processo normativo. Questo rapporto (e null’altro) è espresso con il termine ‘dover essere’ (Sollen), nella misura in cui se ne fa uso in una legge morale o giuridica”. br>
(…) Il numero degli elementi costitutivi di una serie di imputazioni non è illimitato, come il numero degli elementi costituenti una serie causale, bensì è limitato. C’è un punto finale della imputazione. Nella serie causale invece non esiste nulla che possa sembrare ad un punto finale. L’accettazione di una ‘causa prima’, l’analogo del punto finale della imputazione, è inconciliabile con la idea di causalità; per lo meno con l’idea della causalità che trova espressione nelle leggi della fisica classica. La rappresentazione di una causa prima, che, come volontà creatrice di Dio o come liberà volontà dell’uomo, ha una funzione di primo piano nella metafisica religiosa, è parimenti un resto del pensiero primitivo, in cui il principio di causalità non si è ancora emancipato da quello della imputazione”.

Kelsen arriva agli stessi risultati di Freud: la ripetizione scalza il principio di imputazione e determina patologia, che afferma, in soldoni, che al momento in cui si è determinata la mia patologia…. io non c’ero. Di causa in causa non si arriva da nessuna parte nei discorsi della relazione, mentre un qualche cosa è possibile, specie nella condizione della crisi, quando uno o entrambi i componenti del rapporto si dichiarano “imputabili” cioè responsabili di quello che dicono e di quello che fanno. L’uomo giuridicamente è libero, anche se non lo è nel suo stare dentro la natura. Ma a noi tanto basta, essendo il luogo della giuridicità il luogo del rapporto con l’altro.

“Il fatto che l’uomo, in quanto parte della natura, non sia libero – continua ancora Kelsen – , significa che il suo comportamento, considerato come un fatto naturale, secondo la legge della natura, deve essere considerato come causato da altri fatti, cioè come effetto di questi fatti e quindi come determinato da essi. Il fatto però che l’uomo, come personalità giuridica o morale, sia ‘libero’ e quindi responsabile, ha un significato totalmente diverso. Se un uomo è considerato moralmente o giuridicamente responsabile per il suo comportamento morale od immorale, giuridico od antigiuridico (e viene per esso approvato o disapprovato) cioè se un comportamento umano, in base ad una legge morale o giuridica, è interpretato come merito, peccato o reato, ed al merito si imputa un premio, al peccato una penitenza ed al reato una sanzione (cioè una pena nel senso più lato del termine), questa imputazione trova il proprio punto finale nel comportamento umano interpretato come qualificato. (…) Il quesito morale o giuridico della imputazione è invece: chi è responsabile del comportamento in esame? Il che significa: chi deve essere premiato (ovvero chi deve espiare o essere punito) per tale comportamento?”.

Ovviamente la risposta a Kelsen è che ogni soggetto che sappia occupare alternativamente il posto di “soggetto” e di “altro”, nella pratica della reciprocità, è imputabile dei propri comportamenti. Ma soprattutto che tale soggetto è imputabile all’interno di un codice civile e non di un codice penale. Ovvero imputazione non è colpa. Semmai perdono e non condanna.

Quanto Kelsen parla di “legge presupposta” intende che non c’è dimostrazione della legge. Che due persone che vivono rapporto (d’amore) si rifanno ad una legge che li trascende e che per l’appunto è presupposta: è l’amore stesso. Pensare alla legge significa solo pensare non alla ragione, o ad avere ragione, ma a qualche istanza che è in atto in quel momento e che prima non esisteva, e che a noi serve per stare bene con chi stiamo, o fare del bene con chi o a chi lo stiamo facendo.

La legge dell’amore si determina “qui e ora” da presupposta che era. Noi abbiamo bisogno di toccare con mano il perché amare è una cosa buona e non amare è una cosa cattiva. Come si interroge Cacciari:

“Nell’atto stesso del percepire devono esistere ‘actu’ leggi, forme, principi in base ai quali la percezione si collega a ciò che in essa si rappresenta. Non esiste altro modo di sfuggire al dubbio radicale dell’ ‘inganno dei sensi, se non ‘presupporre’ che la sensibilità opera in sé e per se secondo delle leggi”.

La sensibilità è la virtù che noi rendiamo vivibile attraverso i nostri sensi. I nostri sensi non sarebbero nulla (né dal punto della assunzione di dati né dal punto della comunicazione di dati) se non avessero come sostegno di vita una legge che li regola, che li porta verso la giusta “lettura” e verso un corretto farsi leggere dall’altro della relazione.

Ancora Cacciari porta un curioso esempio in riferimento alla tradizione musicale ebraica: “ Il problema del canto, nella tradizione musicale ebraica, è intimamente connesso a quello della lettura della Legge. Chi legge il libro senza melodia è come non mostrasse rispetto per il suo valore; ‘una profonda conoscenza della Torah può essere raggiunta cantandola’. (…) Leggere la Torah non è possibile senza pronunciare quest’anima della parola, e quest’anima esige di essere cantata”.

La legge, anche se solo letta, ha bisogno di una “attualizzazione”, di una “sensualizzazione” per essere incorporata dal soggetto che la vive e che la pratica. Ha bisogno di “passare” attraverso i sensi. Così in amore la legge ha bisogno di atti per passare da una presupposizione ad una sua vivibilità. Gli atti sono tutti contenuti nel desiderio reciproco, nel moto del corpo. Il desiderio che i sensi dicono e che si lasciano dire: sempre nella reciprocità che potremmo davvero ora intendere come la presupposizione della legge.

Martin Buber parla di un Male che è come “il lievito della pasta”, cioè qualcosa che non è negativo in sé ma che diviene negativo quando non collabora con il Bene. Hannah Arendt parla esplicitamente della “banalità” del Male. E la famosa affermazione di Hans Jonas in Il concetto di Dio dopo Auschwitz: “Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile. (…) Ma Dio tacque. Ed ora aggiungo (sta parlando dell’Olocausto): non intervenne perché non volle, non perché non fu in condizione di farlo”.

Cosa significa questa digressione sul Male? Semplicemente che il male è l’effetto, anche esso giuridico, questa volta della non applicazione della legge (di relazione) che appunto afferma che esiste imputazione ma non colpa. La imputazione e non la colpa è il solo modo per curare e redimere dal male, finchè il male resta nell’ambito della colpa sarà sentito, da chi il male lo commette, come un corpo estraneo del quale, alla fin fine, egli non deve rispondere più di tanto. La legge della imputazione invece lo chiama alla “partecipazione” (dire “anche io ho fatto la mia parte”): sarà poi lui libero di riconoscere la quantità e la qualità della sua partecipazione al male stesso. La legge, per avere un senso e una applicabilità, deve essere limitata, non deve essere perfetta altrimenti è inattuabile.

E ancora sul limite di Dio, sul limite della legge, perché è di questo che stiamo parlando, Simone Weil ha modo di scrivere nei suoi Quaderni: “… l’atto della creazione non è un atto di potenza. E’ un atto di abdicazione. Con questo atto è stato stabilito un ambito diverso che quello di Dio. La realtà di questo mondo è costituita dal meccanismo della materia e dall’autonomia delle creature ragionevoli. E’ un regno da cui Dio si è ritirato. Dio ha rinunciato a essere il sovrano, e può accedervi solo come mendicante, mendicante dell’amore”.

E qui finisce la digressione sul rapporto tra la legge e il Male.

Quando Spinoza scrive: “La mente umana percepisce la natura dei molti corpi assieme con la natura del suo”, apre la strada alla relatività. Nel senso che la percezione del proprio corpo è data dalla percezione del corpo dell’altro. E la percezione del corpo dell’altro è data dalla percezione del proprio corpo: relazione e comunione. Questa è la traduzione in pratica della legge presupposta. Esiste legge dell’amore ed esiste una pratica legale dell’amore. La seconda è emanazione della prima. Anche quando la prima dovesse essere fede.

Adattamento ed economia (attività della passività)

L’uomo dell’amore, proprio perché la relazione funzioni, deve dimostrarsi “abile”, capace di fare i conti, capace di tenere in considerazione il posto e il contenuto dell’altro se con l’altro vuole stabilire un patto; deve essere, in parole povere, un “homo oeconomicus”.

La prima regola dell’amore recita l’adattamento.

Ogni forma di conoscenza è una forma di adattamento. Adattamento al fatto che il mio desiderio ha a che fare con una limitazione e con una parte di inconcludenza. E la limitazione è vitale. Terenzio nell’Andria “ Se non è possibile quello che tu vorresti, cerca di volere quello che è possibile”. “Oeconomicus” è il contingente. Colui che sa ‘portare’ il proprio desiderio. “Felice è colui che si accontenta della propria parte” (Talmud). Il giudizio sul proprio desiderio è quello della limitatezza. Non del tolto o del perduto.

Per questo si può parlare della “Attività della passività” , concetto già incontrato: la condizione in cui il mio essere amato è dato dalla mia relativa passività nei confronti dell’altro. L’altro mi ama se io gli offro l’occasione, e sta in questa offerta la mia “passività”. Passività che consiste nel non andare a sindacare il giudizio di stima o di semplice gusto che l’altro ha formulato su di me per volere il mio bene. Se io vado a mettere il naso nelle scelte che l’altro dell’amore opera per il mio beneficio (cioè per il nostro amore), di sicuro lo indispongo perchè ne faccio una questione di fiducia. Invece sulla scelta dell’altro su di me, sul bene della scelta dell’altro io non devo mettere il becco ma solo beneficiare.

Resto passivo ma sveglio. Sempre disposto. La veglia, più che aspettare qualcuno che arrivi e aspettare l’avvenire. Che quello che deve essere, sia. Fuori (anche dalla nostra volontà e giurisdizione). Attività della passività. “A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che non ha”. Ovvero sarà tolta la potenza.

Levinas già citatato: “Io non definisco l’altro per mezzo dell’avvenire, ma l’avvenire per mezzo dell’altro, poiché lo stesso avvenire della morte lo abbiamo visto consistere nella sua alterità totale”.Il mio corpo libero è anche passivo al fatto che altri corpi avvengano. Vengano verso o dentro di esso. L’avvenire dell’altro sarà anche il mistero o il paradosso. Ma in ogni caso il solutore. Spesso se le conseguenze non rispettano le premesse. E’ questo l’avvenire. E il soggetto può porsi nella passività dell’avvenire dell’altro: lo lascia semplicemente fare. Quello che vuole. Attività della passività.

“Se l’individuo non è in grado di accettare come cose naturali la realtà – scrive Laing – , la autonomia, la identità, l’essere vivo suo e degli altri, deve continuamente inventare dei modi per cercare di essere reale, di mantenersi vivo o di mantenere vivi gli altri, di conservare la sua identità; deve lavorare continuamente per impedire a se stesso di perdersi” (Laing, L’io diviso). Ma questo lavoro non è un lavoro di costruzione ma un lavoro di attesa. Di attesa che l’altro costruisca a partire dalla nostra disponibilità.

Attività della passività è: attingere dal fatto che l’altro sappia o costituisca la diversità per noi e noi in questa diversità vediamo un nostro interesse. L’altro si muove verso di me quando io sto fermo. L’altro si muove verso di me per riempirmi quando io dimostro la mia disponibilità deficitaria. Cristo vive come atto di dedizione all’altro che verrà. Il pensiero di veglia è l’atto della attività della passività 44, 45,

E tra il Tu e l’Io deve intercorrere anche una relativa “non conoscenza”, dentro al cui luogo si instaura la sorpresa. La passività vivifica nell’essere dall’altro sorpreso proprio perché il nostro giudizio è stato rinnovato. Anche fuori della logica.

“non sappia la mano destra quello che fa sinistra” (matteo, 6, 3) ovvero una sola delle mie mani faccia si sente di fare al fuori della induzione logica in cui potrebbe indurla l’altra. senza tanti pensiero “calcolo” essere indotta dall’altra se dovessero operare assieme. mia agisca secondo natura. il fattibile essendo le libere. e solo da libere possono esprimere pieno loro potenza.

Ed esiste sempre un “oltre” nella relazione che supera anche la prassi dell’operare d’amore delle stesse mani. Le nostre mani che toccano i nostri corpi nel momento dell’amore, vanno “oltre” l’amore stesso, un “aldilà” e si fermano nel corpo, nella reciprocità dei corpi. Esiste sempre un “aldilà” che tuttavia non ha nulla di trascendentale ma è rappresentato dai corpi stessi che entrano in rapporto, il corpo è la garanzia giuridica che l’amore sta avendo luogo. Ovvero ha trovato una patria ospitale. Giacomo Contri scrive:

“L’aldilà di cui parliamo, in realtà è la relazione di un soggetto con un altro, oltre che pensato, nell’ordine del benessere, della ricchezza, della salute, della facoltà. L’aldilà è la condizione della pensabilità del futuro”. E il futuro è pensabile da una sola mano. Una sola mano fa la relazione con una sola mano dell’altro. Lì ne diviene l’economia della relazione. La stretta di mano non ha bisogno che ci si stringa quattro mani: sarebbe una prigione e la mano perderebbe la propria libertà.… “In questo senso neanche Dio è l’Aldilà. Dio stesso, se non avessimo con lui una relazione, non sarebbe Aldilà (…) Se Dio fosse prima di avere stabilito un rapporto (con l’uomo) sarebbe uno che sta ad un numero civico non facilmente raggiungibile, né con il telefonino né con la posta”.

Opposta alla parola facilità è la parola performaticità. “Performance” non conosce un “ fermo” ma conosce solo il “devo”. Ma quello che più conta è che nella performance non c’è relazione con un’altra persona, esiste solo relazione che con me stesso. Io voglio esprimere la mia potenza ma non per farne ricchezza mia e per l’altro, ma per superare illusoriamente un mio pensiero di impotenza. Nella performance la relazione è con il mio pensiero di impotenza. Cerco riconoscimento esterno a questo pensiero che da solo (non accettando il “fermo”, il Padre, non perché i padri reali siano tutti dei San Fermo, anzi!), non riesco a risolvere. Se vogliamo che la potenza sia potenza, dobbiamo riconoscere a noi stessi che è finita. Fuori da questo pensiero diventa impotenza. Infinita non è più potenza. Semmai prepotenza.

“I Greci avevano una parola eloquente per questo: enkrateia –scrive Salvatore Natoli – . Noi abitualmente la traduciamo con ‘temperanza, che sembra parola timida, però non lo è. In greco enkrateia significa ‘diventare signore di sé. E’ questo il compito che l’uomo deve compiere e sviluppare” ( S. Natoli…..) p. 104-5 La temperanza è il “tempo” che intercorre tra eccitazione e soddisfazione. E’ la virtù che più di tutte le altre ha a che fare con il tempo. La temperanza non è il contenimento del desiderio ma il suo sostentamento nel tempo. Ma non per ottenere poi un maggiore piacere (ricadremmo nella performance) bensì per “saper stare senza” il desiderio stesso, pur perseguendolo come linfa vitale.

Guido Savio

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