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IL VOLERE DELL’EMOZIONE (PARTE PRIMA)

ECONOMIA DELL’AMORE

Economia dell’amore

La volontà è una delle forme del potere soggettivo che entra come componente privilegiata nella relazione. Potere soggettivo è tale in quanto “potenza” di un soggetto, ossia stato in cui non si è ancora realizzato un “qualche cosa”, si riferisce al potere “fare” un qualche cosa con un altro nel senso del rapporto. “Potenza” è solo in riferimento al rapporto in quanto la meta del potere è sempre la soddisfazione reciproca.

Potere che nella laicità delle nostre relazioni si viene a definire attraverso la tanto discussa e anche bistrattata Volontà. Agostino ha un pensiero chiaro a proposito: <br<
Agostino ha modo di scrivere: “Non si deve temere perciò neppure la necessità. Per paura di questa, gli stoici si sforzarono di distinguere le cause delle cose in modo da sottrarne alcune alla necessità, altre liberarle da essa; e tra quelle che non vollero essere sottomesse alla necessità posero anche la nostra volontà, che evidentemente in quel caso non poteva essere libera. Se infatti deve dirsi nostra necessità quella che non è in nostro potere anche contro di noi, come è per la necessità della morte, è evidente che le nostre volontà, grazie alle quali si vive bene o male, non sottostanno a codesta necessità. Non compiremmo infatti molte delle cose che compiamo, se non le volessimo. Questa è la prima proprietà del volere: ciò che vogliamo, è; ciò che non vogliamo, non è; e non vorremmo, se non volessimo.” 1

Sbrigativamente, perché la questione della definizione di “necessità” non interessa qui più di tanto, per Agostino che la necessità è tutto ciò che si oppone alla attuazione della libertà di volontà dell’uomo. Ancora più sbrigativamente con le parole di Agostino nel paragrafo precedente a quello testè citato: “Se quindi volessi in qualche modo adoperare il nome di fato, direi piuttosto che il fato è del più debole, la volontà del più forte” 2 V, 9 [ Prescienza e libertà: il falso dilemma di Cicerone].

Agostino non ha dubbi sulla volontà e la pone come condizione dell’esistenza, quasi una prova ontologica che si oppone alla forza negativa e negatrice della necessità: ciò che noi vogliamo, è.

La condizione del soggetto è dunque quella del volere il proprio moto non solo verso la significazione dei fenomeni, ma verso soprattutto la azione del farli esistere. Le azioni di volontà atte a mantenere in vita il più possibile la relazione.

“Il posto che occupiamo è quello del potere”. Questa potrebbe essere la frase che concilia il motivo per cui noi stiamo al mondo (il potere verso il futuro) e la giuridicità di tale motivo (il nostro posto soggettivo, che in quanto tale per l’appunto è giuridico).

Come in Agostino, il fatto che qualcuno “ci sia”, questa è la prova dell’esistenza del potere. “Che ci sia qualcuno che può qualche cosa, questo è il potere”. Tra due che si amano certo ne esiste sempre uno che esercita in misura maggiore dell’altro il potere. Poi è ovvio che il funzionamento della relazione ha a che fare con la alternanza dell’esercizio di potere (reciprocità). E’ solo la alternanza che garantisce la soddisfazione che come un fluido deve passare da un corpo all’altro senza mai occuparlo completamente, ma neppure lasciandolo privo di nutrimento.

Se noi poi pensiamo alla soddisfazione facciamo presto a capire come essa sia subordinata ad un pensiero di potere. Il mio pensiero è il poter pensare al futuro nel senso della sua realizzabilità. L’avere io un talento mi presuppone al fatto che lo veda nella sua potenza, più che nella ricchezza che la sua realizzazione mi ha dato nel passato.

sarebbe più sano che il soggetto vivesse la propria condizione di potere, potenza, attraverso una spinta superi, vada oltre connotazione lacaniana: “tale è lo sgomento si impadronisce dell’uomo nello scoprire figura del suo potere”. questo sembrerebbe un frutto pensiero nella accezione della scoperta; sembra trovarsi quasi fronte ad illuminazione, romantico sussulto. invece proprio posto potere occupato dal o dall’io (è sua normalità). “chi” opera e muove corpo per realizzazione soddisfazione.

E per mettere giù un altro punto di riferimento, leghiamo il potere alla sua irrinunciabile funzione di legalizzazione. Il potere è tale nel momento in cui compie azione di legalità. Solo in questa logica di salute due soggetti possono stare in rapporto. La legalità che passa dal pensiero al potere attraverso il lavoro, così come lo aveva scoperto Freud della Vorstellungrepasentanz. E la scoperta della non illusorietà del mio pensiero ma del suo avere una rappresentanza che fa sì che io veda nel mio potere non la strapotenza o, il suo opposto, l’impotenza, ma la stessa azione di legalità che mi porterà sempre a concludere, a realizzare.

Pensiero ed economia della legge

Il pensiero non ha legge ma lavora verso la legge: e questo lavoro è un lavoro di volontà. A partire da una condizione di mancanza (la felix pauperitas, proprio nel senso di “feconda”) trova motivo di essere il potere che fa sì che ciascuno di noi ne consegua la rappresentazione del proprio esistere. Il potere è così la fonte del pensiero (in quanto io sono mosso dalla pulsione) e nello stesso tempo il fine del pensiero che è quello di andare da qualche parte verso la quale io penso possa esserci soddisfazione. <br<
Potere

Il potere è, il non potere non è (salute)

Nel senso della guarigione come passaggio dallo stato di psicopatologia potremmo coniare lo slogan “Il potere è, il non potere non è (salute)”. Mi sembrerebbe di poter giustificare questa frase vedendo nel potere la naturalissima evoluzione della pulsione, meglio ancora l’accadere della pulsione, “l’accadere, come reale accadere d’, o psichico, e come il correlato individuale di un reale accadere ad esso esterno”. Così come l’accadere, il potere è sempre diretto verso il fuori, è esterna la sua chiamata. Ecco, se noi potessimo parlare della “vocazione nel senso del potere”, vedremmo proprio la chiamata esterna come unico invito possibile, l’invito dell’altro, perché solo all’esterno può accadere un qualche cosa, nel confine di incontro tra chiamata e risposta.
<br< e=”” quello=”” che=”” accade=”” fuori=”” di=”” noi=”” (nella=”” relazione),=”” sostanzialmente=”” ma=”” anche=”” nel=”” senso=”” dei=”” valori,=”” in=”” modo=”” “più=”” facile”=”” quanto=”” accada=”” all’interno=”” noi.=”” e’=”” più=”” facile=”” perché=”” si=”” è=”” due=”” a=”” lavorare=”” per=”” una=”” soddisfazione=”” comune.=”” raggiungere=”” comune=”” piuttosto=”” propria=”” privata.=”” <br<<br=””>La pulsione fonica (che è una componente essenziale all’interno di un percorso analitico) è muta se non ha orecchie esterne che ascoltano. Così la frase allora citata “Mi è diventato facile dire cose che solo un anno fa o tre anni fa avrei pensato impossibili” è la vittoria della pulsione fonica nel suo divenire rappresentabile per prima cosa alle orecchie del pronunciante e poi alle orecchie dell’ascoltatore, proprio perché la inibizione è stata vinta. Per dirla semplicemente: quando noi parliamo, siamo già all’esterno nel divenire della nostra pulsione fonica. Il potere è il lavoro che è stato fatto dal “di dentro” della pulsione perché essa vincesse la inibizione e uscisse all’esterno. Poi la (il) fine della pulsione è sempre il suo in qualche modo estinguersi. Il potere, che è la strada della uscita dalla inibizione, alla fin fine comprende in sé la propria stessa estinzione. Ma una estinzione pacifica.

Come si legge nel Pensiero di Natura di Giacomo Contri : “La legge di cui si tratta è una legge di moto, o movimento di corpi (umani:pleonasmo), come una legge composta di più articoli, l’ultimo dei quali, la meta reale, o fine del doppio senso della parola (scopo e termine), coincide, come esperienza di soddisfazione, con quell’affetto della soddisfazione che chiamiamo pace (non esiste il caso della assenza di un affetto correlato con l’esperienza; gli affetti sono in numero limitato e contabile, e di qualità definibile)”. 3

Quello che intendo sottolineare è che il potere è insito nella legge del moto di un corpo vero l’altro, in quanto già nella sua stessa primordiale nascita come pensiero comprende il fine o la fine del moto, cioè la soddisfazione (e quindi il rinascere del desiderio). Per ulteriore concisione: il potere è un pensiero pulsionale in quanto nasce con le stesse caratteristiche legali della pulsione stessa. Noi ci pensiamo potenti in quanto esseri pulsionali diretti da un moto verso una meta. Mi verrebbe da dire che il nostro stesso essere uomini è il “pensarci potenti”. Potenti verso la soddisfazione e potenti verso la ripetizione della esperienza di soddisfazione: la soddisfazione risulta facile nel momento in cui noi… abbiamo imparato l’esperienza, cioè abbiamo imparato a ripeterla. La stessa felix pauperitas nella quale tutti noi nasciamo è una è una potenza di avvenire o di crescita, che è la stessa cosa. Potere è tanto amico di volere nella misura in cui esiste un nostro imparare la ripetibilità della soddisfazione. La patologia non ha a che fare con la assenza della soddisfazione, ma con la incapacità del soggetto di lavorare per imparare i moti per la sua ripetizione. Imparare significa che la conclusione del moto non è ripetitiva, ma la sua ripetibilità è possibile.

Come scrive Contri nel Pensiero di Natura: “Non esiste fine, o meta, che di soddisfazione. Legge come legge di moto del corpo, è allora la parola che designa non la necessità (e potremmo qui ritornare all’iniziale Agostino) – naturale o imperativa – bensì la possibilità della conclusione del moto” .4

Vediamo allora come qui la parola “potere” e la parola “possibilità” si avvicinano nella legge della soddisfacibilità del moto del corpo. Il nostro potere è solo potenzialmente possibile. E’ pensabile come potenzialmente possibile. Solo in questo modo ci sarà compagno nel percorso verso la soddisfazione.

La possibilità del potere si libera dalle pastoie e dalle catene del “dispositivo” (obbligo), del comando esterno quando si rendono declinabili le categorie del “sì” o del “no”, sconosciuti nel momento della nascita del moto. Che poi il Super-Io altro non sia che l’imperativo a godere privato dell’atto di libertà, significa ancora di più come il potere affinché sia pensato in quanto tale, deve prevedere non tanto la sua irrealizzabilità contenutistica, ma la sua liberazione dal dispositivo, dall’imperativo.

E’ sempre l’Io che esercita il potere.

Io e potere (L’Io in Freud)

Se il potere rientra nell’esercizio della legge, allora il suo pensiero pratico deve essere un pensiero organizzato. Scrive Freud in L’Io e l’Es (1922): “Ci siamo fatti l’idea che esista nella persona un nucleo organizzato e cosciente di processi psichici che chiamiamo l’io di quella persona. A tale Io è legata la coscienza; essa domina le vie d’accesso alla motilità, ossia alla scarica degli eccitamenti nel mondo esterno. L’Io è quella istanza che esercita il controllo su tutti i processi parziali”5

La parzialità dei processi e dunque la loro difficile governabilità è resa da Freud, sempre nello stesso scritto, dal celebre esempio del cavallo e del cavaliere. “Come il cavaliere, se non vuole essere disarcionato da suo cavallo, è costretto spesso ad obbedirgli e a portarlo dove vuole, così anche l’io ha l’abitudine di trasformare in azione la volontà dell’Es come se si trattasse della volontà propria”. 6 Mai come in esempi come questi (L’altro è che “ l’io non è padrone in casa propria”) Freud riesce ad esprimerere la precarietà ma nello stesso tempo la forza dell’Io. La quale forza è resa sostanzialmente dal suo saper trasformare il suo stesso motivo di essere nella condizione della soddisfacibilità. L’io di Freud sembra l’io della “convinzione”, del potere dell’adattamento di tutto il corpo a trattare se stesso e prepararlo per l’esterno nel senso della economicità, per andare alla ricerca della soddisfazione.

Se il potere ha una sede questa è senza dubbio il corpo. Ancora Freud: “L’Io è anzitutto una entità corporea, non è soltanto una entità superficiale, ma anche la proiezione di una superficie (Nota: Cioè l’Io è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalla sensazioni provenienti dalla superficie del corpo, e inoltre, come abbiamo visto, il rappresentante degli elementi superficiali dell’apparato psichico” 7. E ritorna il dato del corpo pulsionale come rappresentante della legalità del moto della stessa pulsione (si arriva al piacere solo se per la retta via: quale sia la retta via sta ad ognuno di noi dirla. Questa è la fondazione soggettiva della legge). Il moto è già sancito da se stesso nella propria legalità (“Si nasce sani”). Basta non ammalarlo strada facendo.

E’ interessante come Freud insista sulla questione della “rappresentanza” dell’Io, l’Io è essenzialmente il rappresentante del mondo esterno, della realtà intesa nella sua legalità.

Ancora Freud in L’Io e l’Es: “ Bisogna ammettere la differenziazione tra Io ed es non soltanto negli uomini primitivi, ma persino in esseri viventi molto più semplici, giacchè essa è l’espressione necessaria dell’influenza del mondo esterno”.8

e la volontà è sempre verso il mondo esterno, inteso come luogo del raggiungimento fine moto nello stesso tempo della verifica veridicità stessa. “vera” se porta al piacere.
Il pensiero di fare

Marco Aurelio recita: “Se al mattino quando ti svegli non hai motivo per mettere il piede fuori dal letto, pensa che è per fare del bene a qualcun altro che sei venuto a questo mondo”.

Lasciamo da parte implicazioni morali e comportamentali come commento alla massima. Il bene… se verrà, verrà. Mi basta il fare. Il pensiero di fare che mi fa mettere il piede (meglio se quello destro) fuori dal letto in una mattina uggiosa. Dico che l’altro è già implicito nel fare. Si fa (ogni passo) per l’altro. Si fa per altro. E solo in questo modo si fa anche il proprio bene. Non certo però specchiandoci sulle teorie inerenti al nostro corpo fuori dalla relazione.

Si potrebbe dire che quello che si fa nella relazione è “un fare che si fa da solo”, un fare che esce naturalmente dal desiderio del nostro corpo, basta che noi non opponiamo resistenza, la natura fa i suoi passi da sola, senza che noi la guidiamo. E il desiderio è sempre un desiderio mosso dall’altro. Non esistono, lo sappiamo, eccitazioni interne. È sempre l’altro che ci chiama. E la chiamata dell’altro sempre un dato di natura, ovvero è naturale che capiti così; se così non accadesse sarebbe patologico. Un evento che l’uomo può sentire oltre la ragione, oltre la previsione, oltre ogni aspettativa.

Il dolore

Naturale è anche certo la mancanza. Scrive Svevo nella “Coscienza”: “Se la vita duole, non è detto che ci sia cura per forza”.

Il che vuol dire che non è necessario andare a riparare per forza. A ricostruire, non è necessario andare anche contro la natura pur di riparare o di redimere. E’ dalla constatazione che “la vita duole” e dal pensiero che è “naturale” così, che può anche andare bene così, che poi può venire la correzione, o la redenzione, o la riparazione. Guai se si salta il dato iniziale, ovvero la naturalità della mancanza, o del dolore. La naturalità della sofferenza. Non ci si può opporre al dato di realtà che la vita duole. Se io ho nel pensiero che la vita non deve dolore… allora “dolgo” per davvero e dorrò per tutta la vita.

Fare è stare con l’altro. Ogni tipo di fare ha inevitabilmente a che fare con l’altro. Con l’entrare nell’altro.

Scrive Simone Weil nei suoi “Quaderni”: “Le mie azioni aumentano o diminuiscono lo spessore del velo che mi separa dall’universo e dagli altri”. Il velo esiste. Sempre. La distanza a volte può risultare incolmabile e procurare dolore. La nudità dei due corpi in relazione tra di loro, la loro nudità spirituale, può rimanere tale, senza che redenzione o riparazione ci sia. Ma sarà attraverso il mio fare per l’altro, che io mi avvicino o mi allontano dal “velo”. Chiameremo questo velo “l’incolmabile” o “il-solo-avvicinabile”. 9

Simone Weil è convinta che il velo esiste sempre. Ma se noi questo velo lo intendiamo non come semplice mancanza o dolore, ma come mancanza e dolore che devono essere riparati per forza… allora ci danniamo. Se io intendo questo dolore come possibile… solo allora posso intercorrere lo spazio intermedio tra te e me. Posso mettere la mano sul velo, posso scostarlo e posso anche riaccostarlo. A partire dal pensiero che se è dolore… che dolore sia.

Il dolore e le sue cause noi le possiamo contenere dentro di noi, dentro un pensiero anche amorevole. Soffro, ma mi voglio bene anche perché soffro. Sono ammalato se dico che soffro per forza. Che soffro perché ho peccato. Perché è un castigo. Sono in via di guarigione se invece voglio uscire a tutti i costi dalla situazione di sofferenza. Meno si soffre meglio si sta ma… “c’è un tempo per e c’è un tempo per…”.

Simone Weil poi, per parlare dell’essere vicino di due persone e per sentire la comunione dei corpi all’interno della logica e della esperienza del piacere usa l’esempio della “bilancia”. “Mediante quale arte sarebbe giusta la azione nel rapporto con l’altro come un timone di profondità – scrive la Weil – . La azione come timone di profondità. Forse essa può solo abbassare ma non elevare. Forse noi eleviamo la barra di profondità solo attraverso la ‘attenzione’”.

Attenzione che io non esiterei definire ulteriormente come “dedizione”.

Continua Simone Weil: “Atti idonei a rendere giusta la bilancia interiore: mettersi quanto più possibile in una posizione in cui questo timone abbia a che fare con la profondità abbinata alla posizione della attenzione dell’altro. L’una non esclude l’altra”. 10

La attenzione la si vede quasi come un dono. Il dono è sempre un “in più”. Il dono non è un colmare una mancanza. Ma è un consumare o un perdere qualche cosa che è in più. Per questo esso è particolarmente gradito. Il dono è la gratuità assoluta. Non c’è compensazione.

Ecco quello che ci interessa: “Così sei tu” che nell’ambito della volontà che stiamo trattando significa “Così fai tu”. Il tuo essere è la tua essenza, cioè quello che tu fai. Ciò che è dentro di noi ci trascende. E quello che ci trascende va dentro l’altro. La schiuma che viene fuori dal nostro movimento che va verso l’altro. E questa schiuma è inesauribile. La “sottilissima essenza” è il nostro non essere pensanti ma il nostro essere facenti. L’amore è l’altro che ti dice: “Così sei tu”. Non sono io a dirmelo. Certo che l’altro dicendo-mi proietta del suo su di me, ma questo non è elemento di confusione bensì di compenetrazione, la comunione della relazione. Lo scambio è la reciprocità, con il beneficio dell’inventario dell’errore. E nella relazione anche l’incompiuto e l’incompreso hanno un peso economico notevole.

L’eccesso di conoscenza a volte diviene un eccesso di saturazione, uno svilimento della aspettativa, un impoverimento della naturalità che vuole ma che sa stare anche senza il sapere. Mi pare che la conoscenza dell’altro (oltre a tutti gli ovvi aspetti positivi) possa comportare una certa rigidità di movimenti, se non una loro ripetitività. Mi dà l’impressione che la conoscenza eccessiva possa portarmi, nella relazione con l’altro, a forzare la mia naturalità e a strafare. E la conoscenza è un dato di natura e non di cultura. Natura mutevole come l’acqua che scorre dentro l’alveo del fiume. La natura non è l’alveo ma l’acqua (che poi modifica anche l’alveo stesso).

Il pensiero di alterita’

Due pensieri di Leopardi. Il Primo: “Quanto sia grande l’amore che la natura ci ha dato verso i nostri simili si può comprendere da quello che qualunque animale, e il fanciullo inesperto, se si abbatte a vedere la propria immagine riflessa allo specchio, che, credendola una creatura simile a sé, viene in furore ed ismania e cerca ogni via di nuocere a quella creatura. Gli uccellini domestici, mansueti come sono per natura e per costume, si dirigono contro allo specchio stizzosamente, con le ali inarcate e il becco aperto e lo percuotono. La scimmia, quando può lo gitta in terra e lo stritola con i piedi.” 9

Il simile, afferma Leopardi, è l’oggetto del nostro odio. Simile come carica positiva che va a ritrarsi di fronte ad una altra carica positiva. Mentre noi sappiamo che è la “dissimiglianza” che mi attira. E’ il diverso che mi chiama. Anche se dentro di me esiste l’eterno e arcaico e infantile desiderio di possedere l’altro simile a me stesso. A ben pensare se io mi specchio non è che veda il simile. Ma vedo me stesso. Non vedo l’altro da assalire, come afferma Leopardi, ma attacco me stesso che non ho saputo riconoscere. L’altro è sempre diverso da me e non mi appare nella logica dello specchio, almeno che io non ve lo riduca. Ma qui siamo nella psicopatologia.

Il secondo dei due pensieri di Leopardi. Che possiamo, pure nel pessimismo e nella amarezza con cui sono scritti, vedere come appelli d’amore. Ancora prima della Ginestra. Appelli d’amore di uno che sa parlare solo quella lingua dell’amore, il negarlo.

“In un libro che hanno gli ebrei di sentenze e detti vari, tradotto come si dice d’arabico, tra molte altre cose di nessun rilievo, si legge che non so quale sapiente, essendogli detto da uno ‘ Io ti voglio bene’ rispose ‘ E perché no? Non sei né della mia religione, né parente mio, né vicino, né uno che mi mantenga”. 11

Questo è l’alterità. Non sei sangue del mio sangue. Sei altro. Solo la alterità dell’altro è ritenuta degna dal saggio ebreo per farsi amare. “Non il sangue” vuol dire che noi dobbiamo saperci spogliare da tutti i ruoli e da tutte le strutture, soprattutto quello della parentela, per presentarci nudi all’altro.

Ma noi non possiamo avere la garanzia che tutto funzioni e che il dolore sia vinto. La mia azione comporta una reazione. Non “allora va” ma… “allora”. Punto. Noi non potremmo mai dire: “Ecco trovata la soluzione, ecco che le cose vanno, ecco che allora va”. Questo non lo potremmo mai dire. Dovremmo fermarci all’”allora”. Un passo prima. Per poter fare un passo dopo.

Il funzionare o meno è sempre dato dal corpo. Il quale corpo non è una istanza che esiste “prima” dalla relazione. Il corpo “si fa” nella relazione. Se la relazione cessa, cessa anche il corpo, ma essendo che noi siamo sempre in relazione, il nostro corpo ha vita garantita! Il fare è quello del corpo ed in questo senso il fare tiene lontana la malattia (il pensiero di essa): basta non concedere che il corpo si ammutolisca nel pensiero di se stesso che appunto è il pensiero di malattia. Più il mio pensiero si rivolge non al mio corpo ma a parti del mio corpo, più lo ammala. Fare è lasciar fare al corpo al di fuori del pensiero di se stesso si dimostra essere il segreto della salute. Atman. Spontaneità. Spontaneità che non è ripetitività. Noi siamo continuamente diversi nei modi e nei tempi. Siamo questo e anche quello ed è solo dentro alla relazione che questa molteplicità nostra sana e naturale trova una appropriata leggibilità e agibilità.

Non a caso nel conflitto interno alla relazione la recriminazione che più spesso affiora è quella sul mancato mantenimento di una “fedeltà” a se stessi. “Non hai saputo mantenere le promesse (le tue stesse parole ti contraddicono)”.

certo, ma la frase “questo sei tu” non può essere pronunciata “una tantum”, on nè definitoria né definitiva sa solo circostanziare il nostro momentaneo e precario. io lo cambio mio atman, me chiede vita che di relazioni è fatta. proprio perché riconosciamo domanda noi rivolgiamo all’altro sempre una “fedeltà” (è naturale così sia), anche risposta dell’altro viaggia sul piano della molteplicità, diversità a volte incongruenza rispetto alla nostra stessa.
Pensare al pensiero

Alcuni Frammenti di Novalis che hanno per tema il pensiero: “ (244) Certamente il pensare – scrive Novalis – è, come il fiore, null’altro che la più fine evoluzione delle forze plastiche e l’universale forza di natura nella ennesima ‘dignità’. (246) Pensare in senso comune è pensare il pensiero, il confrontare i pensieri specificamente diversi. (249) Pensare è parlare. Parlare e agire o fare sono una unica operazione”. Infatti il bambino mette assieme tutte queste operazioni in un agire, in un essere per il fare.12

Quello che sembra degno di nota in Novalis è che il pensare è sempre un “pensare ad un pensiero”. Il che non vuol dire il gatto che si morde la coda, ma significa la fattività (almeno nella salute) del pensiero che in ogni caso si presenta operativo. Noi abbiamo la possibilità, pensando al pensiero, di pensare ad uno “strumento”. E questo ci rende molto più facile il nostro essere nel mondo.

Guido Savio

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