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ERRORE E CORREZIONE (IL SUCCO DELLA STORIA)

ERRORE E CORREZIONE

(IL SUCCO DELLA STORIA)

Tutto poi si solve o si risolve.

PARTE TERZA

La situazione che ho preso in considerazione, e lo ripeto, è eccezionale. Tuttavia la disponibilità di soggetti e di gruppi nel mettere nelle mani di altre agenzie, di altri soggetti, la propria carta di identità è più diffusa di quanto in realtà si pensi. E tutto ciò avviene perché io non ho abbastanza amore per il mio giudizio. Tutto ciò avviene perché io non ho abbastanza amore che il mio giudizio entri nella relazione con l’altro come un atto di amore. Tutto ciò avviene perché io non ho fede che l’altro possa reggere il mio giudizio quando entra e il lui.

Amo l’altro nel momento in cui offro anche alla altro la sicurezza, la relativa sicurezza, che io ho verso il mio giudizio. Dopo, con la regola, il reciproco giudizio ce lo misuriamo, ce lo facciamo andare bene attraverso la azione del compromesso. Tuttavia il punto di partenza e un punto di fede. Fede del proprio giudizio e nella capacità che l’altro sopporta i il mio giudizio.

Del momento in cui l’altro si sottrae al mio giudizio, sottrae la possibilità che il mio corpo possa essere gettato su di un altro corpo nel senso dell’amore.

Noi tutti uomini di passione abbiamo fede e coraggio per le cose che diciamo. Dopo sta a me dare un giudizio di assolutezza o di relatività alle cose della mia passione. Del momento in cui le giudico relative le posso mettere all’interno della relazione. Nel momento in cui le giudico assolute è meglio che le lasci fuori della relazione. La passione con cui una soggetto sostiene le proprie idee è una garanzia per l’altro. Sincerità e fermezza delle giudizio con cui io manifesto la mia identità. E tale manifestazione avviene sempre nella relazione con l’altro. Nell’amore con l’altro. Per questo la legge dell’amore ha a che fare con l’essere se stessi. Essere se stessi limitatamente alla nostra capacità di credere in noi stessi. È sempre una questione di fede.

Fede del soggetto che le cose, dopo l’errore e la correzione, gli possano andare bene. Il figlio prodigo.

“Uno uomo aveva due figli. Uno dei due gli chiese di dividere le proprie sostanze….. ” Questo figlio che chiede al padre: ” dammi la mia parte ” è il figlio sano, è il figlio del buon giudizio, è il figlio che ha una pensiero di diritto di eredità. Questo figlio ha fatto dei conti, ha fatto dei progetti, ha fatto 1 + 1. Ha avuto fiducia nella propria domanda e la a portata di fronte al padre. Fiducioso nella risposta. Possiamo dire che finora questo figlio ha commesso un errore ? Questo figlio sa che la sua domanda trova l’orecchio del padre. L’orecchio del padre di cui parlava Simon Weil , l’orecchio del padre che è l’orecchio dell’universo disposto ad ascoltare. Questo figlio, al momento, ha con il padre un rapporto di libertà. E tanto basta. Il regime di libertà è costituito dalla dato di realtà che il padre può rispondere tanto di sì quanto di no. Libertà non e il sì garantito, l’amore garantito, ma la possibilità che alla nostra domanda ne consegua un no. Sappiamo che il padre, il buon padre è colui che quando risponde di no lascia tuttavia aperta una altra possibilità. Questo ragazzotto a tutte le carte in regola: ha fiducia in se stesso, sa fare la domanda al padre, ha dei progetti per il futuro.

Se questo ragazzotto esprimerà un giudizio e esprimerà un giudizio errato, almeno saprà che ha errato con la propria testa.

Poi questo ragazzo correggerà il proprio errore con la propria testa proprio perché colla propria testa ha sbagliato.

Il figlio potrà avere una pensiero di correzione del proprio errore soltanto se avrà saputo maturare un altro pensiero, quello che tutto l’universo sbaglia e dunque essendo lui parte dell’universo, anche egli può sbagliare. Sappiamo noi che la parola contraria, la parola avversa alla parola giudizio è la parola esautorazione. E esautorazione significa che io demando nelle mani dell’altro la principale forma di autonomia e di identità che io posseggo ovvero il mio giudizio. Come si accennava all’inizio.

“Quanti salariati in casa di mio padre hanno di che sfamarsi ed invece io sono qui costretto a mangiare le carrubbe” così continua il discorso o la ammenda del Figliol Prodigo. E il nostro ragazzo comincia la sua redenzione muovendosi, passando alla azione, così come l’amore del Paradiso è ciò che “move il sole e l’altre stelle”.

“Mi leverò, andrò da mio padre e gli dirò: – Padre, ho peccato contro il cielo e contro di Te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni”.

Finora il ragazzo ha solo pensato, si è mai ha espresso una desiderio o una promessa, ma finora non ha ancora concluso niente: solo parole. Affinché la sua redenzione possa avere una realizzazione è necessaria la pratica è necessario il passaggio dalle parole alla azione. Le parole senza azione costituiscono una ripetizione che va contro il volere stesso, va contro la salvezza stessa, va contro il progetto stesso.

La vera richiesta di perdono avviene quando il figlio getta le braccia attorno al collo del proprio padre e ripete la frase: “Padre ho peccato contro il cielo e contro di Te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni”.

Il figlio esprime al padre come giudizio il pensiero che egli aveva avuto da solo come promessa o come progetto di ritorno alla casa del padre. Ma tutto questo rimane una mera sospensione fino al momento in cui non c’è il fatto, non c’è l’atto. Le parole esprimono la cosa, ovvero il desiderio del figlio di essere perdonato dal padre, quando questi guarderà negli occhi il padre stesso. Sovrapposizione di pensiero e azione: questo è l’atto del giudizio e nello stesso tempo è l’atto con il quale avviene domanda di perdono dunque possibilità di redenzione.

Il padre, di fronte alla frase delle figlio, ha saputo concretizzare il percorso delle figlio stesso dal suo pensiero alla azione. Infatti il padre quasi nemmeno bada alle parole delle figlio ma dà ordine ai servi di uccidere il vitello grasso e di festeggiare immediatamente il ritorno del figlio che prima era considerato perduto.

Al padre basta la presenza del corpo delle figlio. Il quale corpo si presenta al cospetto del padre dopo aver maturato il congiungimento, la concomitanza di pensiero e azione: penso questo e lo faccio. Proprio per questo il padre ha perdonato il figlio e ha ucciso il vitello grasso. Ha visto il moto del corpo del figlio e tanto gli è bastato.

Il padre ha capito che al figlio gli è funzionato il giudizio in entrambi i moti: il moto di andata (” papà dammi la mia eredità” ) e il moto di ritorno (” papà perdona il fatto che ho consumato la tua eredità “).

Il figlio è il figlio della coscienza e della conoscenza dell’errore. Attraverso questa conoscenza il figlio ha saputo di venire migliore di quello che era prima di sbagliare e dunque si presenta al padre con un vestito nuovo con occhi nuovi, con una voce nuova, con una nuova identità. La quale identità é la identità della guarito che é sempre su di un livello superiore rispetto alla identità del sano. Il figlio verrà perdonato in quanto ha saputo passare attraverso l’errore e attraverso la propria umiltà per recedere dalla logica dell’errore per avvicinare nuovamente il padre.

Si guarisce soltanto attraverso l’umiltà. Umiltà deriva da “humus”, terra. Cioè uguale per tutti. Tutti per terra.

In tutta questa storia, in tutta questa parabola evangelica, c’è un solo protagonista: il figlio. Il figlio in quanto ha saputo accedere alla risposta del padre in riferimento al giudizio positivo che egli ha avuto il merito alla sua domanda. Il figlio non ha affrontato in certezza nella domanda di perdono rispetto al padre in quanto aveva il pensiero sanno di padre cioè quello di una soggetto, di una agenzia, di una identità, di una entità metafisica, trattandosi di Dio, che a primariamente nel proprio repertorio il volere il bene dell’altro, nella fattispecie il perdono.

Il padre è proprio la creazione del pensiero del figlio.

In questa parabola ha fatto tutto il figlio in quanto egli ha saputo avere quel pensiero di padre, il pensiero di padre all’interno della legge del beneficio: ovvero l’altro vuole primariamente il mio bene. Sta a me chiedere, sta a me porgere la domanda. Sì, il figlio guarito è colui che ha una particolare pensiero di padre: il padre che dice di sì.

Il Padre è l’Universo, quello di Dante. “Nel suo profondo vidi che si interna, legato con amore in un volume ciò che per l’ Universo si squaterna”. Quello lì è il Padre in quanto amore universale.

E quel figlio lì, attraverso il proprio giudizio, è stato anche partigiano di se stesso, ha creduto fortemente nelle proprie cose e anche nelle proprie passioni. Ed in quanto tale, solo in quanto tale, ha avuto accesso all’amore del Padre e dunque all’amore di tutti gli uomini. Esiste una verità, ma noi siamo portatori di tante verità, ed ognuno è partigiano di essa, ognuno ha fede in essa, nel proprio giudizio. Ma direi che è proprio nel momento in cui io mi dimostro fiduciario, entusiasta, partigiano del mio giudizio o della mia fede, posso entrare in libero amore con l’altro. L’altro saprà accettare tutto il mio peso, tutti il peso del mio corpo, se io lo presento con un giudizio sincero e temperato. Temperanza del giudizio. Temperanza della relazione. Temperanza dell’amore. Temperanza che è sapere aspettare e sapere dire il proprio tempo dell’attesa.

Il giudizio sul nostro essere non è tanto un giudizio, potremmo dire, epistemiologico, sulla oggettività dell’errore. L’ errore di cui parliamo noi ha già insita la accezione della sua correzione. E dunque l’errore funziona per traghettare il sano (con dentro la sua malattia) verso il guarire. Si passa dall’errore, non se ne può fare a meno. Quando si sbaglia? Direi che non è tanto questa la questione. La questione è rinvenire dentro al proprio errore la possibilità della correzione. Il giudizio di errore non è un giudizio “positivo” ma un giudizio “propositivo”. Attraverso l’errore ci si passa per forza.

La scienza ha una oggettività nell’errore. Popper negherebbe tutti i nostri discorsi. Ma noi non stiamo parlando della scientificità dell’errore che pure esiste. La flappa, il mancare, il mancare il bersaglio esistono come dati reali. Ma non è questo l’errore di cui stiamo parlando. L’errore è il pensiero del nostro essere mancanti. Ontologicamente. E da lì si parte. E lì si arriva, anche. La malattia semmai è perseverare nell’errore. Farne una logica di frequentazione dei nostri vissuti senza la fede della correzione.

Il Vangelo, quattro o cinque pagine prima o quattro o cinque pagine in Luca dopo della parabola del Figliol Prodigo parla di come noi possiamo correggere il fratello che sbaglia. Quando il tuo fratello sbaglia, se non capisce il suo errore, parlagli, se ancora lui non capisce il suo errore, chiama un amico per convincerlo, se ancora non capisce, trascinalo davanti all’ Assemblea e fallo convincere dagli Anziani. Ma non è questo che ci interessa. Non è la correzione tecnica dell’errore che ci interessa, bensì il pensiero che il soggetto ha di errore e della sua correggibilità in merito alla sua capacità di rapporto con l’Altro, con il Padre. Potenza. Sovranità di entrare come beneficio nella relazione con l’altro. L’errore è ricerca, che se vogliamo è anche sbattere la testa, in ogni caso percorso verso la acquisizione della legge che recita che il mio beneficio deriva dal beneficio dell’altro, cioè dal mio presentarmi bene all’altro in modo che egli mi accolga nel mio stesso errore.

Correggere è anche il latino “cum regere”, portare assieme all’altro. Il bene dell’altro io lo ottengo sostenendo l’altro, “cum regere”, facendo la strada assieme dove proprio la strada si fa difficile. Errore, afferma ancora Rigotti, è “perdere la via”, vagare e quindi “de-linquere” e andare “gradus” al di là del solco giusto. Errore è sempre un “aegraedior”, un progredire, non tanto un andare verso la strada giusta o verso la soluzione. Errare è sempre perdere la via, e anche a sbagliare, se si vuole essere ingannati. Ma noi sappiamo che nella storia dell’uomo è inevitabile l’offesa, è inevitabile l’ altro patogeno, quello che non ce la racconta giusta. Magari questi sono i nostri genitori stessi, come diceva Agostino.

La mia naturalità di soggetto è anche quella di darti i miei errori come dono. Non volontario, ma dono della mia naturalità. Ma qui non vorrei fare del moralismo.

L’errore poi è, lo sappiamo tutti, quando i conti non tornano. Quindi l’errore è evidente, anche se non legato assiologicamente al tempo in quanto un errore di adesso potrebbe non esserlo tra cinque o dieci anni. Dono dell’errore, ma mi accorgo anche che a volte io lancio o scarico addosso all’altro il mio errore senza tanto la softerie del dono. Ma va bene anche così. Io all’altro posso dare il mio errore, ma sono chiamato anche a dargli le mie scuse. Io non posso con il mio giudizio, per quando lo ami e per quanto partigiano ne sia, distruggere l’altro. L’errore, quello patologico, quello che fa danni, è sempre un atto di male, un maleficio, forse un atto di odio verso l’altro. Riverso il mio giudizio contro l’altro per ferire: questo è l’errore patologico. Porto il mio giudizio all’altro è l’atto dell’amore. E’ la fermezza del mio giudizio l’atto d’amore. Anche se questa a volte può divenire l’offesa. Io non credo che posso compiere azione preventiva ( razionale) per non offendere l’altro. E allora qui la prudenza, quella che Simone Weil chiama attenzione. Ma io non posso, per non fare del male all’altro, non essere fedele al mio giudizio. L’errore di chi erra perché fa non è errore. Tuttavia esisterà anche un errore malefico. La maleficità è il sapere del proprio errore verso e contro l’altro. Tutto qui. La vita è l’unica messa in scena che non possiamo provare prima… Quindi…

Se esiste una patologia dell’errore è quella dell’errare sapendo di errare.

Io vado a mentire dove so che l’altro soffre. E questa è la perversione. E la perversione è la negazione della relazione in quanto uccisione della diversità dell’altro. L’unico errore è il dolo in quanto sempre conosciuto. In quanto errore di valutazione all’interno di una norma che viene trasgredita in quanto norma.

E’ il Padre che viene offeso, sempre. Nella parabola del Figliol Prodigo non c’è offesa al padre ma lavoro di individuazione del figlio nei confronti del Padre. E questa è la storia di tutti gli uomini. Tutti gli uomini in quanto figli che si danno da fare per fare fronte al caos, alla indefinizione della legge e dei valori.

GUIDO SAVIO

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