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La perversione è il peccato

La perversione è il peccato. Il bambino che tiene il pallone tutto per sè perverte le regole del gioco che dicono: “Si gioca tutti assieme! ”

La presunzione è sempre stata trattata come peccato e il presuntuoso come peccatore da tutte le etiche e da tutte le religioni, perfino dal buon senso che fa stare assieme i bambini in un gioco comune. Il bambino che tiene il pallone tutto per sè è il peccatore.

Prima di essere parole, comportamento, modalità di relazione, la presunzione è giudizio, e in questo senso la presunzione è un peccato del giudizio. Non una mancanza, una incapacità, un limite, un turbamento nella facoltà , bensì un vero e proprio peccato.

Peccato che un giudice di dantesca estrazione non dovrebbe esitare a punire come Dante punisce l’ipocrisia nel canto Ventesimo terzo dell’Inferno :

“Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi agli occhi, fatte della taglia che im Clugnì per li monaci fassi. Di fuor dorate son, sì ch’egli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia”.

(Dante, Inferno, canto XXIII, vv. 61-66)

Potremmo dire che l’ipocrisia è la “ragion pratica” della presunzione, il mettere in atto una condizione di grave perversione già operata prima in sede di pensiero attraverso la estromissione della stessa legge che sta come fondamento della facoltà di giudizio.

Dall’etimo presunzione è un prae-sumere , cioè prendere, attribuirsi con spiccata connotazione riflessiva. Un vero e proprio illecito nel campo del giudizio in quanto giudizio, prima che atto del soggetto verso l’altro (o realtà esterna) è disponibilità del soggetto a farsi giudicare, entrare cioè nella sfera dell’essere (giudizio di esistenza) per bocca e per pensiero dell’altro.

La perversione che attua la presunzione è per l’appunto la negazione che l’altro possa occupare il posto di chi ha la capacità (dignità) di definire il soggetto stesso. Il posto dell’altro viene occupato dal soggetto stesso che si fa voce (e che voce grossa) dello stesso giudizio che dall’altro dovrebbe venire. Se la psicoanalisi è educazione affinchè si possa accettare che un altro esprima il proprio giudizio sul nostro conto, la presunzione è il chiudere questo conto in partenza, con un atto avverso (versus) l’altro: in quanto tale peccato e in quanto tale perversione.

Il pervertire che è la presunzione viene punito da Dante secondo la legge della similitudine. Il desiderio dell’ipocrita è legato all’apparire (e le cappe dei dannati rifulgono dall’esterno) mentre la sua realtà è quella della cecità e del grigiore del piombo. Non è il tempo del giudizio che anticipa il presuntuoso, ma anticipa il fatto che l’altro possa prendere posto nel luogo che egli ha già “predestinato” di non riservargli. E’ proprio il destino dell’altro che il presuntuoso va a segnare, pronunciando la frase: “mai in me”.

A partire dai suoi primi altri (cioè babbino e mammina) il presuntuoso ha capito che non è bene fidarsi, senza avere saputo o voluto in seguito staccarsi dalla teoria perversa così elaborata (utilizzazione perversa di una frase nevrotica). E’ dunque l’altro a non avere valore in quanto è più vantaggioso per il presuntuoso non investire “a rischio” nell’altro che porebbe essergli anche non vantaggioso.

La questione è palesemente economica, di una accezione, potremmo dire, squisitamente “finanziaria”. L’investimento del presuntuoso consiste proprio nel non investire sul giudizio (sulla parola) dell’altro in quanto (ipotetico, e qui sta il rischio dell’investimento) foriero di verità definitorioa e di praticabilità della relazione. Il giudizio come forma legale viene pervertito nel suo valore e professato (la vera profissio fidei del presuntuoso) non valevole, come il bambino riesce a proferire il “non vale” se posto di fronte a quella che egli stima una ingiustizia.

E’ dunque il gioco della relazione che non vale e le regole (norme) vengono pervertite proprio come il bambino afferma “non vale” se vede che l’altro gli sottrae il piacere, per l’appunto perverso, di giocare da solo.

Guido Savio

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